- Memoria del nostro santo Padre, confessore e martire STEFANO il GIOVANE
a cura della Chiesa Greco-Ortodossa di San Paolo Apostolo dei Greci, Reggio di Calabria
Stefano, emulo del primo martire, nacque a Costantinopoli da genitori pii e distinti, che erano rimasti molto tempo sterili. Ottenendo da Dio questo figlio, dopo un’apparizione della Madre di Dio, fecero voto di consacrarlo al servizio divino. Battezzato dal santo patriarca Germano (cf. 12 maggio) che lo mise sotto la protezione del primo martire, il ragazzo crebbe in scienza e virtù, disprezzando i vani piaceri e applicandosi alla pratica della dolcezza e dell’umiltà.
Quando arrivò il momento per i genitori di Stefano di mantenere la loro promessa, e di consacrarlo a Dio, l’imperatore Leone III l’Isaurico (717 – 741) cominciava a prendere le sue prime misure d’interdizione delle sante immagini e di persecuzione dei difensori dell’Ortodossia. Essi ritennero più prudente allontanarsi dalla capitale, dove l’eretico sovrano spadroneggiava, e affidare il figlio ai monaci del Monte Sant’Assenzio, a Nicomedia* .
Il ragazzo di sedici anni fu ricevuto con gioia da questi santi uomini e rivestì il giorno stesso il santo abito angelico. Egli divenne il discepolo del quinto successore di sant’Assenzio, Giovanni, anziano provato nell’arte dell’ascesi e dotato del dono di chiaroveggenza. Stefano mostrava una perfetta obbedienza e uno zelo uguale per i compiti più faticosi così come per le lodi di Dio. Tempo dopo il suo padre carnale morì e Stefano andò a Costantinopoli per regolare gli affari e distribuire i suoi beni ai poveri. Condusse con lui sua madre ed una delle sue sorelle, che divennero monache nel vicino convento femminile e lasciò l’altra sorella entrare in un convento della capitale.
Giovanni, suo padre spirituale, rimise anche lui poco dopo la sua anima a Dio e Stefano fu scelto al suo posto come egumeno dai fratelli riuniti. Sotto la sua diligente direzione e grazie alla sua grande umiltà, il piccolo gruppo di asceti crebbe fino a raggiungere il numero di venti fratelli e divenne un monastero cenobitico. Il santo organizzò la vita in maniera molto simile al Regno dei Cieli, poi si ritirò più lontano per dedicarsi alla preghiera silenziosa e continua, lasciando Marino, uno dei suoi discepoli, come egumeno. La sua cella era sprovvista di tetto ed esposta alle intemperie ed era così stretta che poteva a malapena abbassarsi. Vestito di una misera tunica in ogni periodo, portando pesanti catene di ferro sul corpo, accontentandosi di un nutrimento sufficiente solo a mantenersi in vita, san Stefano fece grandi progressi nella contemplazione e attirò a lui, senza volerlo, numerosi discepoli e visitatori che diffusero in tutto l’impero la sua fama. Alla morte di Leone (741), suo figlio Costantino V fu incoronato imperatore. All’inizio del suo regno sembrò non preoccuparsi della soppressione delle immagini, troppo impegnato ad opporsi all’usurpatore Artavasde e alla minaccia araba in Oriente. Una volta definita la sua autorità, dichiarò una selvaggia repressione contro coloro che veneravano le sante icone. Egli devastò le chiese, fece profanare i sacri vasi ornati di sante rappresentazioni, fece imbiancare a calce i muri coperti di affreschi e fece bruciare le icone sul legno. Rispettò solo le pitture aventi un carattere profano e decorativo e non ammetteva che la Croce degna di venerazione. Coloro che osavano opporsi alle sue misure erano severamente puniti, in particolare i monaci. Ricercati, esiliati, torturati, costoro accorrevano in gran numero verso il Monte Sant’Assenzio per trovare presso santo Stefano conforto e incoraggiamento a perseverare nella confessione dell’Ortodossia. Egli consigliava loro di emigrare nelle regioni che erano ancora indenni dalle crudeli misure imperiali: il Mar Nero, il Golfo Persico, Cipro, la costa di Siria e soprattutto l’Italia del Sud, dove migliaia di monaci trovarono allora rifugio. Nel 1754, il tiranno riunì uno pseudo concilio al palazzo di Hiera, composto da più di 300 vescovi sottomessi alla sua autorità e fece loro proclamare ufficialmente la soppressione del culto delle immagini e il riconoscimento delle sue folli dottrine personali, perché egli si vantava di teologia. Forte di queste decisioni, Costantino fece distruggere dappertutto le immagini e ordinò che fossero rimpiazzate da rappresentazioni dell’imperatore o scene profane. Vennero distrutte anche le reliquie dei santi. Dappertutto si bruciava, si distruggeva, si imprigionavano i confessori. Ciò fu l’occasione di condurre una sistematica persecuzione contro il monachesimo che, più indipendente della gerarchia ufficiale, riguardo all’autorità, rimaneva sempre un fattore di resistenza all’arbitrio imperiale. Si chiudevano monasteri, li si trasformava in caserme, in bagni o altri edifici pubblici, si oltraggiavano le monache obbligandole a prendere l’abito laico e a sposarsi sotto pena di tortura. A coloro che resistevano si tagliava il naso, la lingua e si affliggevano con altre sevizie prima di mandarli in esilio.
Senza paura di rappresaglie, san Stefano continuava la sua resistenza e appariva dappertutto come il capo della parte ortodossia. Egli fu chiamato ad andare a Costantinopoli per sottoscrivere le decisioni del concilio eretico e avendo rifiutato e rinviato coraggiosamente i messi imperiali, costoro escogitarono una furberia per discreditarlo presso i suoi numerosi partigiani e così condurlo a Costantinopoli. Essi fecero passare la voce che il santo si dava al peccato con una onorabile monaca del convento, sua figlia spirituale, e pagarono dei falsi testimoni per affermarlo avanti all’imperatore. Anna, la monaca, fu condotta a Costantinopoli e comparve avanti al sovrano. Poiché negava queste infami calunnie fu crudelmente torturata, ma il santo restò indenne. Finalmente si riuscì a arrestarlo con l’aiuto di una nuova furberia e cioè dicendo che aveva costretto un giovane favorito dell’imperatore a prendere l’abito monastico. Arrestato, fu chiuso in un monastero a Costantinopoli, mentre il suo monastero venne incendiato e dispersi i suoi discepoli. Venne confrontato in pubblico con i teologi dell’imperatore, ma sostenne brillantemente la tradizione dei Santi Padri. Poiché lo si poneva di fronte all’alternativa: firmare le decisioni del Concilio o morire tra i tormenti, il santo derise i suoi accusatori, mostrando loro che questo concilio non poteva esistere e che i sei primi concili ecumenici erano stati riuniti in chiese ornate esse stesse da immagini, per cui le sue decisioni erano manifestamente eretiche e straniere alla tradizione. Egli fu allora condannato all’esilio nell’isola di Proconneso in Propontide (755) e approfittò di questo esilio per ritirarsi in una stretta cella, sulla cima di una colonna, per iniziare nuove fatiche ascetiche. Egli ottenne così un tale favore presso Dio che compì numerosi miracoli per coloro che andavano da lui e confessavano la santa fede ortodossa, venerando l’immagine del Cristo.
Questi miracoli fecero crescere ancora di più la fama del santo e rinforzarono i partigiani dell’Ortodossia, poiché era impossibile trovare tale santità nel campo degli eretici. Per mettere fine a questo prestigio, l’imperatore fece trasferire san Stefano a Costantinopoli, in una prigione del pretorio. Lì trovò altri 342 monaci confessori della fede e tutti portavano sul corpo i segni dei loro gloriosi combattimenti: gli uni avevano il naso tagliato, altri le orecchie o la lingua, altri erano stati tremendamente oltraggiati e coperti di letame. Vedendoli il santo glorificò piangendo la loro fede e la loro perseveranza. Egli diede coraggio ai disperati, li esortò a rimanere fermi sulla pietra della fede fino al termine del combattimento e li riunì come un solo corpo sotto la sua potente autorità spirituale. Malgrado le difficili condizioni di detenzione, Stefano organizzò la vita dei prigionieri come in un monastero, al ritmo della lode perpetua di Dio e nella unione armoniosa di tutti. Egli convertì anche all’ortodossia i suoi carcerieri che ascoltavano con ammirazione i racconti delle lotte dei santi confessori. Dopo undici mesi di prigionia Stefano ricevette la rivelazione della sua prossima morte. Egli iniziò allora un digiuno di quaranta giorni, durante i quali insegnava notte e giorno ai suoi discepoli la via della Salvezza; poi, arrivato l’ultimo giorno, ordinò di celebrare una veglia di tutta la notte per ricevere da Dio la forza nel suo ultimo combattimento. L’imperatore aveva fatto affiggere dappertutto la sentenza d’esecuzione del capo della parte ortodossia per spaventare coloro che nascondevano nelle loro case i monaci o i confessori della fede: così bene che, in una grande confusione, la folla eccitata dai soldati si precipitò al pretorio, prendendo il santo e trascinandolo sulla pubblica via, coprendolo di ingiurie e colpi.
Quando il corteo arrivò alla chiesa di San Teodoro, uno di questi lo colpì in testa e gli ruppe il cranio spandendo il suo cervello al suolo. Il cadavere di san Stefano fu allora atrocemente mutilato e gettato in una fossa comune riservata agli idolatri. Era il 28 novembre 766, e il santo aveva l’età di cinquantatre anni.
*Fondato al V sec. da sant’Assenzio, non era un monastero ma un gruppo di asceti che vivevano sotto la direzione di un padre spirituale. Vicino c’era un convento femminile.
- Memoria di Santa Teodora di Rossano
FRANCESCO FILARETO
Viviamo in un tempo di smemorati. Il pensiero unico dominante educa, ma è meglio dire dis-educa alla rimozione della memoria storica collettiva. Viviamo sommersi in un presentismo consumistico, arido, egoistico, angosciante, infelice. Siamo come degli alberi imponenti, ma senza radici, esposti noi e quelli che verranno allo spaesamento, al disorientamento, alla perdita del senso dell’identità culturale di appartenenza e alla perdita di un progetto di vita per il futuro. Muoversi fuori dal coro, contrastare tutto ciò, resistere è impresa molto ardua e ancora più ardua è la reattività e più ardua ancora è l’inversione di tendenza. Ma, senza memoria della nostra vicenda umana collettiva e personale, del nostro “villaggio vivente nella memoria” (Ernesto De Martino), non c’è conoscenza e, quindi, non c’è amore per la propria città, per la propria comunità civile, e non c’è, di conseguenza, l’orgoglio di sentirsi parte di un interesse generale e di un bene comune. Chiusi nel nostro “particulare”, individualistico e familistico, conduciamo una vita arida, insoddisfacente, inutile agli altri e a se stessi, anonima, senza lasciare tracce di noi stessi. Ripetiamo gli errori e gli orrori del passato. Non partecipiamo alla vita politica, cessiamo di essere cittadini attivi, ci dimettiamo da cittadini attivi, diventiamo qualunquisti, soggetti di spirito di rinuncia, di rassegnazione, di paranoia. Non sosteniamo le persone perbene che testimoniano, con coraggio e servizio,l’eticità, la coerenza, l’impegno tra e per gli altri. Ci asteniamo da tutto o ci affidiamo per le rappresentanze istituzionali a individui impresentabili. Ciò nonostante, ci sono ancora testimonianze dignitose, autorevoli, credibili, che alimentano la “resistenza civile” (Giancarlo Costabile) e la speranza che l’impossibile diventi possibile.Tra queste gli uomini di cultura, che, contro ogni convenienza personale e familiare, sono chiamati a parlare, a fare coscienza, a scuotere le coscienze, a muoversi contro corrente, a essere “bastian contrari”, “ribelli positivi, ricostruttori di buona comunità” (Pino Aprile), profeti di prospettive di rinnovamento. Perché la cultura, quella vera e concreta, è e dev’essere legata alla vita e al nostro impegno nella società.
In questo quadro e con queste finalità facciamo memoria di una rossanese Theodora del secolo X, nella ricorrenza del suo 1036° anniversario, nella speranza di salvarla dalla dimenticanza e di restituirla alla conoscenza dei suoi concittadini di Rossano.
Ricostruire le notizie sulla vita e sull’opera di Theodora non è cosa facile. Le poche informazioni, dirette e di prima mano, le possiamo ricavare da una fonte letteraria importantissima, la biografia o “Bìos”di San Nilo, scritta, tra il 1035 e il 1045 nella Badia di Grottaferrata, da San Bartolomeo, che conobbe nella sua prima permanenza a Rossanola Nostra.
Theodora nasce intorno alla fine del secolo IX (poco più di uno o due decenni prima del 910, anno di nascita di Nilo), “da nobili e onesti ma non troppo agiati genitori Eusebio e Rosalia”,a Rossano, dove trascorre tutta la sua vita, fino al “28 novembre 980”, anno della sua morte. Sappiamo che, inizialmente, è, in qualità di monaca, consigliera e guida materna di Nilo, infatti, il “Bìos” ci informa che: ella “amava il santo Padre Nilo, sin da quand’era giovanetto, quasi un proprio figliuolo”.Ma, quando Nilo si fa monaco e acquista fama di saggezza e santità, accetta, con umiltà, di diventare discepola del suo discepolo. Una doppia novità, rivoluzionaria per quei tempi di omofobia o di diffidenza verso le donne, segnatamente da parte del Monachesimo, che nelle donne vedeva gli strumenti del maligno e alle donne vietava persino l’ingresso nei Monasteri. Nilo e Theodora anticipano, per scelta di vita e comunanza di fede vissuta, di circa due secoli, i due Santi umbri,Francesco e Chiara.
Il “Bìos” ci informa di uno scambio di “lettere” tra Nilo e Theodorasu una questione umana rilevante. Nel 945 circa, un umile e povero contadino, il ventenne Stefano, anch’egli rossanese, perso il padre, decide di monacarsi e di seguire Nilo, lascia, perciò, il suo lavoro, ma lascia anche la mamma e la sorella senza sostentamento e protezione. Nilo, che allora si trova nella zona ascetica del Mercurione conduce un’ascesi solitaria, anacoretica ed eremitica, nella grotta di S. Michele, è restio ad accogliere la richiesta, che avrebbe potuto creare proselitie distoglierlo dal suo rapporto diretto e personale con l’Assoluto (altri infatti verranno dopo: Giorgioe Bartolomeo di Rossano, Proclo di Bisignano ecc.), ma, “non riuscendo a farlo recedere dal suo proposito” lo accoglie come suo discepolo e, nello stesso tempo, “crede giusto di prendersi sollecitudine” della mamma e della sorella di Stefano. Perciò, mosso dalla carità e dalla misericordia, Niloindirizza alcune “sue lettere”, le più antiche di cui ci dà notizia il “Bìos”, ma a noi non pervenute, alla “MadreTheodora”, allora Badessa Superiora del Monastero montano dell’Arenario, detto anche di Sant’Opoli, con le quali le fa richiesta di accogliere e ospitare le due familiari di Stefano, bisognose di un ricovero e di aiuto spirituale e materiale. La richiesta di affidamento della mamma e della sorella diStefanoviene favorevolmente accolta daTheodora, che dà loro ospitalità nel Monastero da lei diretto, uno dei numerosi Monasteri della famosa Montagna Santa (àghionòros) di Rossano; e lì le due donne, che ricevono spesso le visite di Stefano “nel tempo delle mietiture”, vivono alcuni anni serenamente e “in pace” fino alla conclusione della loro esistenza terrena.I passi del “Bìos” ci fanno intendere, abbastanza chiaramente, che Nilo è il fondatore di quel Monastero, che si trovava sulla montagna di Rossano e aveva due reparti, uno per monaci e l’altro per monache. Quest’ultimo egli affida a Theodora, che ne è la Badessa o Superiora. Detto Monastero era ubicato al “Varco del Rinacchio” o nella contrada di “Ceradonna” (termine che unisce due parole: la prima greca “kùria” e la seconda “domina”, aventi lo stesso significato di “la Signora”, ossia Theodora) oppure nella zona della “Vadda era Patissa” (ossia “la Valle della Badessa”,Theodora).
Alcuni anni dopo, intorno al 970, Nilo, convince Theodora e le sue monachead abbandonare il Monastero per due buoni motivi: perché esso è in montagna, lontano dal consorzio umano, dove il clima per alcuni mesi all’anno è particolarmente rigido e l’ambiente è difficile, e soprattutto perché è esposto alle frequenti devastanti incursioni dei Saraceni islamici (che lo saccheggeranno e lo distruggeranno). Nilo le fa trasferire a Rossano, nella Grecìa, nel quartiere più anticodella città, precisamente nel Monastero femminile e annessoOratoriodi S. Maria Anastasìa.
I due immobili furono “edificati a sue spese”, intorno alla metà del X secolo, da“Eufràsioo Euprassio, creato daiBasileis di BisanzioGiudice d’Italia e di Calabria”, che allora “dimorava a Bisanzio”. L’Oratorio (che probabilmente ingloba una precedente costruzione ed era utilizzato dai monaci delle sottostanti Laure per la loro ascesi comunitaria) e il Monastero sono destinati a “un Ascetario di sacre vergini” e affidati alla “direzione di un monaco di nome Antonio”.Questi, però, in pochi anni, riduce l’Oratorio e il Monastero in “precarie e disastrose condizioni per l’incuria di lui”. Prossimo alla morte, “si rivolge” a Nilo, “lo costituisce procuratore di tutti i suoi beni” e lo incarica di risanare e riqualificare quegli immobili. E Nilo, poco dopo il terremoto che si abbatte sulla città (970), lascia il suo Monastero di S. Adriano (nell’attuale S. Demetrio Corone) e fa ritorno nella sua città natale per rifondare e “ricostituire” sia l’Oratorioe sia l’attiguo Monastero; entrambi li “intitola” a S. Maria Anastasìa,li destina a “tutte le vergini disperse”, della città e del territorio,e alle vedove di Rossano nonchè alle monache del Monastero dell’Arenario, trasferitesi nella città, e li affida alla direzione di “una Superiora”, la sua allieva la Badessa Teodora, che in quel Monastero trascorre il resto della sua vita e dove viene “seppellita” .
Passa altro tempo “da Bisanzio giunge a Rossano,con grande fasto e ostentazione,Eufràsio(o Euprassio), il Giudice imperiale d’Italia e di Calabria”, accolto trionfalmente da tutte le autorità politiche e religiose della città e del dominio bizantino. Ma, “dopo tre anni muore e il suo corpo fu deposto nel Monastero delle vergini di S. Anastasìa”, dove viene sepolto.
Ignoriamo, a causa di inesistenza di fonti narrative e documentarie, qual è la vicenda storica dei due manufatti bizantini. Verosimilmente, all’indomani della latinizzazione della Chiesa e della Diocesi di Rossano (1459-1462), l’antico Oratoriodi S. Anastasìacambia il suo nome in San Marco, viene ingrandito con un corpo di fabbrica aggiunto e diventa una Chiesa aperta al pubblico fino ad anni recenti; invece, il Monasterodi S. Anastasìaviene privatizzato e trasformato in una civile abitazione, ora di proprietà Nola.
Bartolomeo, il biografo di Nilo, con poche ma efficaci pennellate,ci lascia un profilo forte di Theodora, “tale di nome e di fatto” (il termine greco significa infatti “dono di Dio” o “colma di doti divine”), “una vergine molto veneranda”, “vegliarda santa e molto prudente e saggia”, una donna forte che fa una scelta di fede radicale e anticonformista di “un genere di vita ascetico assai rigido”. Ella si caratterizza come testimonianza di religiosità autorevole e credibile, tanto da fare scrivere a Bartolomeo: “non so se Rossano ne abbia generata un’altra simile a lei”.
Aggiungo, non so quanti a Rossano la ricordano. Ne fa memoria qualche calendario, come quello del Convento dei Frati Minori Cappuccini “S. Maria delle Grazie” della Chiesa di S. Pio di Pietralcina (S. Giovanni Rotondo), che oggi, 28 novembre, la ricorda come la “Santa Theodora di Rossano”. Ne fa memoria il settimanale “la Domenica” distribuito nelle Chiese d’Italia il 27 novembre. Ne facciamo memoria anche noi con il presente breve articolo e con la lettura di questo articolo, ricordandola – anche – per essere la prima donna di Rossano a emergere dalle nebbie della storia e a occupare un posto nella storiografia della città e della Regione.