- Memoria del santo glorioso apostolo Onesimo
Era uno schiavo di Appia e di Filemone, personaggio influente della città di Colossi, in Frigia, che era stato convertito al cristianesimo dallo stesso Paolo di Tarso e che accoglieva nella sua casa la comunità cristiana della città. Onesimo fuggì a Roma per sfuggire alla punizione per un furto che aveva commesso, lì conobbe Paolo che si trovava in carcere in attesa di essere giudicato dall’imperatore. Si convertì al cristianesimo, si fece battezzare e si mise al suo servizio. Paolo che conosceva bene il suo padrone, Filemone, e la sua fervente fede cristiana, pur volendo tenere con sé Onesimo, che ormai amava come un figlio, rispettò le leggi romane in materia di schiavitù e decise di rimandarlo al legittimo padrone, con una lettera, scritta tra il 54 e il 63, la Lettera a Filemone [1], in cui chiedeva però a Filemone di tornare ad accogliere Onesimo non più come uno schiavo, ma come un fratello.
«Per questo, pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò che devi fare, preferisco pregarti in nome della carità, così qual io sono, Paolo, vecchio, e ora anche prigioniero per Cristo Gesù; ti prego dunque per il mio figlio, che ho generato in catene, Onesimo, quello che un giorno ti fu inutile, ma ora è utile a te e a me. Te l’ho rimandato, lui, il mio cuore. Avrei voluto trattenerlo presso di me, perché mi servisse in vece tua nelle catene che porto per il vangelo!» (Lettera a Filemone 8-13)
Paolo nella lettera discute un caso singolo e non affronta il tema della schiavitù in quanto tale, anche se il suo atteggiamento si pone chiaramente su di un piano ulteriore a quello della mentalità schiavistica del tempo[1] perché essa risulta palesemente in contrasto con la legge della carità cristiana. Per Paolo il padrone e lo schiavo, anche se conservano le relazioni sociali di prima, diventando cristiani devono ormai vivere come due fratelli al servizio dello stesso Signore. Ecco come Paolo scrive ancora: «Forse per questo è stato separato da te per un momento, perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto di più che schiavo, come un fratello carissimo in primo luogo a me, ma quanto più a te, sia come uomo, sia come fratello nel Signore. Se dunque tu mi consideri come amico, accoglilo come me stesso. E se in qualche cosa ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto. Lo scrivo di mio pugno, io, Paolo: pagherò io stesso. Per non dirti che anche tu mi sei debitore e proprio di te stesso!» (Lettera a Filemone 15-19)
Onesimo tornò quindi da Filemone dal quale fu accolto benissimo e fu affrancato[senza fonte]. Venne poi rimandato nuovamente a Paolo per aiutarlo, tanto che Paolo se ne servirà per inviare la sua Lettera ai Colossesi, nella quale è citato come latore:
«Tutto quanto mi riguarda ve lo riferirà Tichico, il caro fratello e ministro fedele, mio compagno nel servizio del Signore, che io mando a voi, perché conosciate le nostre condizioni e perché rechi conforto ai vostri cuori. Con lui verrà anche Onesimo, il fedele e caro fratello, che è dei vostri. Essi vi informeranno di tutte le cose di qui.» (Lettera ai Colossesi 4,7-9)
Dopo aver contribuito alla diffusione del cristianesimo in Asia Minore, Onesimo morì attorno al 90.
- Memoria di sant’Eusebio l’eremita
Vicariato Arcivescovile della Campania- Chiesa dei SS. Pietro e Paolo – Napoli
Il 15 del mese di febbraio, memoria del nostro padre pio Eusebio.
Suscitando la meraviglia degli angeli, Eusebio lascia la vita umana.
Il pio Eusebio l’eremita visse nel V secolo. Per amore di Dio intraprese la via monastica: entrò in monastero, fu tonsurato, poi si ritirò in solitudine su una montagna vicino la città di Asikha, dove cominciò la sua vita ascetica. In quel luogo, delimitò con pietre uno spazio a cielo aperto, senza possibilità di riparo dalla calura estiva o dal freddo dell’inverno. Trascorse la vita in stretto digiuno e in un’ascesi corporale così austera da ridurre il suo corpo alle sole ossa. La fama della sua santità condusse molti dal Santo, per una grazia o una benedizione. Questo però le condizioni della sua vita e per sfuggire alla confusione e mantenere l’esichia nella sua lotta spirituale, abbandonò quel luogo e si trasferì in un monastero nelle vicinanze. In quel nuovo posto visse ancora nella preghiera e nella austera ascesi. E così il pio Eusebio, dopo aver vissuto nell’amore di Dio, si addormentò in pace all’età di 90 anni.