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Sinassario | 14 novembre 2024

Nov 13, 2024 | Sinassario

  • Memoria del nostro Santo Padre Gregorio Palamas

a cura della Chiesa Greco-Ortodossa di San Paolo Apostolo dei Greci, Reggio di Calabria

Il 14 novembre, memoria del nostro Santo Padre GREGORIO PALAMAS, vescovo di Tessalonica, il Taumaturgo.

Il nostro Santo Padre Gregorio nacque a Costantinopoli nel 1296. I suoi genitori, aristocratici emigrati dall’Asia Minore durante l’invasione turca, facevano parte della corte del pio imperatore Andronico II Paleologo (1282-1328). Malgrado le alte funzioni, suo padre aveva una intensa vita di preghiera e, sedendo in Senato, arrivava a non ascoltare l’imperatore che si rivolgeva a lui, tanto era immerso nella preghiera. Egli morì allorché Gregorio era ancora giovane, dopo aver rivestito l’abito monastico. Sua moglie desiderava anche essa prendere il velo, ma ritardò qualche tempo per garantire l’educazione ai suoi sette figli. Il primogenito, Gregorio, fu affidato ai migliori maestri delle scienze profane e acquistò, tempo qualche anno, una perfetta padronanza dei ragionamenti filosofici: a tal punto che il suo maestro credeva, ascoltandolo, di sentire lo stesso Aristotele in persona. Malgrado questi successi intellettuali, il giovane dirigeva la sua verità interiore solo verso le cose di Dio. Egli frequentava i monaci più stimati della capitale e aveva scelto come padre spirituale Teolepto di Filadelfia (1250-1325) che lo iniziò alla santa sobrietà e alla preghiera del cuore.

Verso il 1316, Gregorio decide di abbandonare le vanità del mondo e trascina con lui verso la vita monastica sua madre, due sorelle, due fratelli e un gran numero di servitori. Essendosi recati ai piedi della Santa Montagna dell’Athos, Gregorio e i suoi due fratelli si insediarono nelle vicinanze del monastero di Vatopedi, sotto la direzione di un anziano proveniente dal Monte di San Aussenzio, Nicodemo. Esercitato fin dall’infanzia alla pratica delle virtù fondamentali che sono l’obbedienza, l’umiltà, la dolcezza, il digiuno, la veglia e le varie austerità che permettono di sottomettere il corpo allo spirito, il giovane fece rapidi progressi nella santa attività della preghiera. Giorno e notte, senza sosta si rivolgeva a Dio dicendo con singhiozzi:<< Illumina le mie tenebre!>>. Dopo qualche tempo, la Madre di Dio, che egli aveva come confidente fin dalla giovinezza, gli inviò san Giovanni il Teologo per promettergli la sua protezione in questa vita e nell’altra. Ora, dopo solamente tre anni, dalla morte prematura di suo fratello Teodosio, ben presto seguita da quello di Nicodemo, spinge Gregorio e l’altro suo fratello Macario, a congiungersi al monastero di grande Lavra. Nominato cantore, Gregorio riscuoteva l’ammirazione dei suoi compagni per lo zelo nella pratica simultanea di tutte le virtù evangeliche. Egli conduceva una vita così austera che sembrava essersi liberato dal peso del corpo: poteva restare anche tre mesi senza prendere mai sonno.Perfetta nella vita comune, la sua anima era però desiderosa delle dolcezze della solitudine; è perciò che egli si ritirò nel giro di tre anni. Nell’eremitaggio di Glossia, sotto la direzione di un monaco eminente, chiamato Gregorio di Bisanzio. Dalla purificazione delle passioni egli poté elevarsi con preghiera verso la contemplazione dei misteri della creazione. Grazie alla solitudine e alla quiete interiore (esychia), Gregorio manteneva tutto il tempo la mente nel profondo del cuore, al fine di invocarvi il Signore Gesù Cristo con compunzione, in maniera che egli diveniva tutto intero preghiera e che dolci lacrime colavano continuamente dai suoi occhi, come da due fontane.

Ma, le razzie incessanti dei pirati turchi costrinsero ben presto Gregorio e i suoi compagni ad abbandonare la loro residenza. Con dodici monaci, il Santo decide di andare a venerare i Santi Luoghi e di trovare rifugio al Monte Sinai, ma fu impedito di realizzare tale progetto e restò qualche tempo a Tessalonica, dove partecipò alle attività di un circolo spirituale, spinto dal futuro patriarca Isidoro, che si sforzava di far diffondere la pratica della preghiera di Gesù presso i suoi fedeli, facendo loro approfittare della esperienza dei monaci. Nel 1326 fu ordinato prete, dopo aver ricevuto la visione che questa era la volontà di Dio. Egli partì per fondare un eremitaggio nei dintorni di Veria, dove, per ben cinque anni, si dedicò ad una ascesi ancora più rigorosa: egli restava isolato cinque giorni a settimana nel digiuno, veglia e preghiera bagnata di lacrime e, ricompariva il sabato e la domenica per celebrare la divina liturgia, dividendo un pasto fraterno e intrattenendosi su qualche argomento spirituale con i suoi compagni d’ascesi. Egli continuava così ad elevarsi nella contemplazione e ad entrare in unione diretta con Dio nel suo cuore. Alla morte di sua madre, andò a Costantinopoli e prese sua sorella che installò in un eremitaggio vicino al suo. Ma non potè trovare a lungo tempo riposo perché la regione era regolarmente devastata dalle incursioni dei Serbi.Decide quindi di ritornare all’Athos e si stabilisce nell’eremitaggio di San Saba, un po’ al di sopra di Lavra. Questo nuovo soggiorno fu l’occasione per lui di isolarsi dagli uomini per conversare solo con Dio. Egli non andava che eccezionalmente al monastero e non comunicava con i suoi rari visitatori che la domenica e i giorni di festa. E fu così che dalla contemplazione ancora esteriore, Gregorio pervenne alla visione di Dio nella luce dello Spirito Santo e alla deificazione promessa da Cristo ai suoi discepoli perfetti. Un giorno, in sogno, vide che era pieno di un latte proveniente dal cielo, il quale uscendo da lui si trasformava in vino riempiendo l’atmosfera circostante di un gradevole aroma. Era quello il segno che gli rivelava che il tempo era ormai arrivato di insegnare ai suoi fratelli i misteri che Dio gli rivelava. Egli redasse allora qualche scritto ascetico, poi fu nominato egumeno del monastero di Esfigmenu (1335). Ma il suo zelo e le esigenze spirituali non furono comprese dai duecento monaci che là vivevano, cosicché dopo un anno egli ritornò nel suo eremitaggio.

A quell’epoca, un monaco originario della Calabria, Barlaam, si era acquistato una brillante rinomanza tra i migliori intellettuali della capitale, grazie alla sua abilità nelle speculazioni filosofiche. Egli amava particolarmente commentare gli scritti mistici di san Dionisio Aereopagita (cf. 3 ott.) ma dava una interpretazione puramente filosofica, facendo delle conoscenze di Dio l’oggetto di freddi ragionamenti e non d’esperienza. Avendo fatto la conoscenza di alcuni semplici monaci questo delicato umanista era rimasto scandalizzato dai loro metodi di preghiera e dallo spazio che essi lasciavano all’elemento sensibile della vita spirituale. Gli esicasti fecero allora a Gregorio che redasse più trattati polemici, nei quali rispondeva alle accuse di Barlaam situando la spiritualità monastica in una vasta sintesi dogmatica. Egli dimostrava che l’ascesi e la preghiera sono il risultato di tutto il mistero della Redenzione e sono il modo per ognuno di fare sbocciare la grazia depositata in ciascuno al Santo Battesimo. Egli difendeva così le fondamenta dei metodi utilizzati dagli esicasti per fissare la mente nel cuore: perché, dopo l’Incarnazione, è nei nostri corpi santificati dai sacramenti e innestati dalla Eucarestia al Corpo di Cristo che dobbiamo ricercare la grazia dello Spirito. Questa grazia è la grazia di Dio essa stessa che, rifulgendo dal corpo di Cristo il giorno della Trasfigurazione, ha colpito i discepoli di stupore (cf. Matt. 17) e che, e risplendendo adesso nel cuore purificato dalle sue passioni, ci unisce veramente a Dio, ci illumina, ci deifica e ci dona un assaggio della gloria che brillerà così sul corpo dei Santi dopo la Resurrezione generale. Affermando così la piena realtà della deificazione, Gregorio non negava pertanto che Dio sia assolutamente trascendente e inconoscibile alla Sua essenza. Al seguito dei Santi Padri, ma in maniera più netta, egli distingueva in Dio l’essere impartecipabile e le energie eterne, creatrici e provvidenziali, attraverso le quali il Signore faceva partecipare gli esseri creati al Suo essere, alla Sua vita e alla Sua luce, senza tuttavia introdurre alcuna divisione nella unità della natura divina.Per San Gregorio, Dio non è il concetto dei filosofi, ma Egli è Amore, Persona vivente e <> come insegna la Scrittura, che fa tutto per deificarci. Immediatamente riconosciuto dalle autorità dell’Athos nel Tomo Aghioritico, le abbaglianti argomentazioni del Santo furono adottate dalla Chiesa, che condannarono Barlaam, e con lui l’umanesimo filosofico che doveva ben presto ammirare il Rinascimento europeo, nel corso di due concili riuniti in Santa Sofia nel 1341.

Barlaam venne condannato e trovò rifugio in Italia, ma la controversia non era comunque conclusa. Gregorio, che per redigere i suoi trattati, aveva vissuto qualche tempo recluso in una casa di Tessalonica, aveva appena avuto il tempo di raggiungere il suo eremitaggio all’Athos, che uno dei suoi vecchi amici, Akindyno, riprese l’essenziale degli argomenti del calabrese, accusando Gregorio di introdurre delle novità nella distinzione tra essenza e energie. Arbitro tra Barlaam e Gregorio, Akindyno era uno di quei osservatori formalisti che si accontentavano della ripetizione di semplici formule per condannare gli umanisti senza cercare di penetrare lo spirito della tradizione. È allora che scoppiò una terribile guerra civile dovuta alla rivalità tra il gran Duca Alessio Apokaukos e l’ambizioso Giovanni Cantacuzeno, amico di Palamas. Il patriarca Giovanni Calecas prese le parti di Apokaukos e, attraverso l’intermediazione di Akindyno, intentò a Gregorio un processo, in seguito al quale venne scomunicato il Santo e condannato alla prigionia.

Durante i quattro anni della sua reclusione, Gregorio non abbandonò la sua attività: egli intrattenne una vasta corrispondenza e redasse un importante trattato contro Akindyno. Verso il 1346, quando il vantaggio passò a Cantacuzeno, la reggente Anna di Savoia prese le difese del santo e fece deporre il patriarca la notte stessa dell’entrata trionfale di Cantacuzeno nella capitale. Costei nominò Isidoro patriarca (1347-1350) e riunì un nuovo concilio per giustificare gli esicasti. La controversia non trovò tuttavia un esito definitivo che nel 1351, dopo la riunione di un terzo concilio contro l’umanista Niceforo Gregoras. Nel Tomo Sinodale, la dottrina di San Gregorio sulle energie increate e sulla natura della Grazia, veniva riconosciuta come regola di fede per la Chiesa Ortodossa.

Isidoro procedette alla nomina di una serie di nuovi vescovi e affidò a Gregorio il seggio di Tessalonica (marzo 1347). Ma poiché la città era nelle mani della parte Zelota avversaria di Cantacuzeno, il nuovo metropolita non poté prendere possesso del suo seggio. Gregorio allora si rifugiò qualche tempo a Limnos, dove mostrò un comportamento eroico durante una epidemia e poté infine rientrare in città dove venne acclamato come Cristo trionfante negli inni di Pasqua. Nelle sue numerose attività pastorali fece guadagnare ai suoi fedeli la grazia abbondante che aveva conquistato nella solitudine. Egli fece brillare sulla città la luce che illuminava il suo cuore e dispensò con abbondanza i suoi insegnamenti ispirati, insistendo sul legame stretto che deve unire la preghiera e la via sacramentale nella vita di ciascun cristiano. Per la potenza di Cristo egli compì numerosi miracoli e guarigioni. Nel corso di un viaggio verso Bisanzio, cadde nelle mani dei Turchi e fu messo in prigione in Asia Minore per un anno. La relativa libertà di cui disponeva e la sua apertura di spirito, gli permisero di intrattenere discussioni teologiche amichevoli con teologi musulmani e con il figlio dell’Emiro Orkam. Liberato grazie ad un riscatto venuto dalla Serbia, riguadagnò Tessalonica dove proseguì la sua opera di pastore e taumaturgo. Egli cadde gravemente ammalato ma qualche tempo prima della sua morte, vide San Giovanni Crisostomo apparirgli per invitarlo a raggiungerlo in mezzo al coro dei Santi gerarchi, il giorno in cui la loro festa sarebbe stata celebrata. Fu così infatti che il 14 Novembre 1359, il Santo rimise la sua anima a Dio. Allorché spirò, il suo viso irradiò una luce simile a quella che brillò su San Stefano (Atti 6.7). Dio mostrò così, la verità della sua dottrina sulla realtà della deificazione attraverso la luce increata del Santo Spirito. San Gregorio fu canonizzato nel 1368, e per i suoi numerosi miracoli fu considerato fino ad oggi come il secondo protettore di Tessalonica dopo san Demetrio.

Note:

1) La festa di San Gregorio Palamas è solennemente festeggiata la 2a domenica di Quaresima, dopo la festa dell’Ortodossia.

2) Vale a dire la vigilanza sui movimenti della parte carnale dell’anima che mettono l’intelligenza in cammino di purificazione.    

  • Memoria del santo apostolo FILIPPO

a cura della Chiesa Greco-Ortodossa di San Paolo Apostolo dei Greci, Reggio di Calabria

San Filippo era originario di Betsaida, in Galilea, compatriota dei santi apostoli Pietro e Andrea. Egli era così attento a meditare la Legge e i Profeti che disprezzava tutti i piaceri del mondo e rimase vergine tutta la vita. Poco dopo il suo Battesimo da Giovanni e la chiamata di san Andrea, il Signore Gesù incontrò Filippo e gli disse:<< Seguimi! >>. Costui ascoltò subito e andò a trovare Natanaele per dirgli:<< Colui di cui ha parlato Mosè nella legge, così come i Profeti, l’abbiamo trovato: è Gesù figlio di Giuseppe, di Nazareth >> (Giov. 1,45). In seguito seguì e servì fedelmente Gesù durante tutta la sua predicazione. Fu lui, che nel corso dell’ultimo intrattenimento con il Maestro, gli chiese:<< Signore, mostraci il Padre, e ciò ci basterà >>. E Cristo gli rispose con tristezza:<< È da molto tempo che io sono con voi e tu non mi conosci, Filippo! Colui che ha visto me, ha visto il Padre >> (Giov. 14,9).
Dopo l’Ascensione di Nostro Signore e la discesa del Santo Spirito, Filippo fu designato a sorte per evangelizzare la provincia d’Asia (parte occidentale dell’Asia Minore). Accompagnato dall’Apostolo Bartolomeo (cf. 25 agosto) e da sua sorella Marianna, egli attraversò la Lidia e la Misia proclamando il Vangelo in mezzo a innumerevoli prove. Essi affrontarono le botte, le flagellazioni, gli imprigionamenti e le lapidazioni da parte dei pagani, senza mai perdere la loro gioia e la loro speranza in Cristo che dava loro la forza. Le conversioni si moltiplicavano al loro passaggio ed arrivarono a portare alla fede anche la donna del proconsole d’Asia, Nicanoro. Dopo aver incontrato san Giovanni il Teologo, Filippo andò a Ierapoli, dove fu catturato dai pagani, trascinato a terra sulla piazza centrale e crocifisso a testa in giù insieme a san Bartolomeo. Malgrado le sue sofferenze il santo pregava ardentemente. Al momento di rendere l’anima, la terra si aprì improvvisamente e inghiottì un gran numero di pagani, i loro sacerdoti e lo stesso proconsole. Sbalorditi, gli altri empi si precipitarono verso san Bartolomeo e Marianna, che erano ancora in vita, li liberarono e chiesero loro di essere ricevuti nella santa Chiesa di Cristo. dopo aver seppellito degnamente i resti di san Filippo e aver piazzato Stachis come vescovo della città, san Bartolomeo e santa Marianna partirono per continuare la loro predicazione in Licaonia.

  • Memoria di San Fantino il Nuovo

Archimandrita Antonio Scordino

+ San Fantino il Nuovo 
30 agosto -14 novembre

La personalità storica del compagno di Niceforo, san Fantino, è nota da poco, poiché solo alla fine del 20° secolo è stata pubblicata la Vita, conservata in un’unica copia finita non si sa come in Russia.

Alcuni eruditi hanno pensato che Fantino fosse oriundo della Regione delle Saline, ma sol perché ivi mosse i primi passi di vita monastica e perché portava il nome di san Fantino il Cavallaro. Sono convinto, invece, che egli non sia nato nella Sicilia continentale, in provincia di Reggio, ma nel nord della Calabria: nella Vita si legge infatti che egli, nascosto sui monti del Pollino, fu scoperto da alcuni cacciatori che ben lo conoscevano perché ‘vicini di casa’, i quali andarono subito a chiamare i genitori di Fantino. Ecco comunque in sintesi – come al solito – la Vita [1]. 
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Il nostro padre di beata memoria, il grande Fantino, nacque in Calabria [circa 920] da Giorgio e Vrieni [2]. Più che dal latte, fu nutrito dalla condotta dei genitori, ricolma del Santo Spirito, e fu dato allo studio delle Sacre Scritture. Dotato di un vivo desiderio di imparare, in men che non si dica arricchì alla perfezione la mente; respinti i giochi infantili, amava frequentare i devoti.
Suo padre, arguendo l’intima disposizione del ragazzo, a otto anni decide di offrirlo in dono a Dio e – poiché era giunta al suo orecchio la fama di sant’Elia [Speleota] – si recò al monastero [di Melicuccà] dove si trovava il grande uomo di Dio. Questi però, immerso nel colloquio con Dio, si faceva vedere solo di sabato e domenica.
Giunto che fu il sabato, Giorgio e Fantino furono condotti dinanzi al santo. Ed egli, rimandato a casa il padre, chiamò il più saggio dei monaci e gli affidò il ragazzo. E grazie alla rapidità nell’apprendere e all’intelligenza di cui era dotato, nell’arco di cinque o sei anni, Fantino riprodusse in se stesso la ricchezza e la varietà delle doti del suo maestro. Tutti ne tessevano le lodi: non era l’età che induceva i ghèronti a lodare il giovane, ma la mente adulta e stabile, i modi educati e la squisitezza dell’animo.
Mentre egli così progrediva, un giorno Elia lo mandò a chiamare e gli disse: “Fantino, perché sei venuto, così giovane, da noi miseri ghèronti?”. Rispose: “Per Cristo e per i miei peccati”. Disse allora Elia: “La via verso Cristo è difficile da percorrere sino alla fine; coloro che la scelgono, soffrono fame e sete e nudità. Fa’ attenzione, perché molti sono i tranelli del nemico, e ti devi preparare a fronteggiarli”.
Dopo aver detto queste parole, tonsurò il giovane, e lo iscrisse nella comunità dei monaci, affidandogli il servizio della cucina[3]. Fantino assunse con gioia quell’incarico: badando al fuoco della cucina, immaginava il fuoco che riceve i peccatori; e servendo i fratelli a tavola, li vedeva come angeli e non come uomini.
Egli in un primo tempo mangiava ogni due o tre giorni; passato un anno dalla tonsura, prese a nutrirsi una sola volta la settimana di verdure crude e legumi, e raramente d’un pezzo di pane con acqua: vinse cosi la gola, e acquisì il completo dominio sulle altre passioni. Dopo aver purificato a fondo il cuore, ed essere giunto alla misura dell’età che attua la pienezza di Cristo [30 anni circa?], ricevette l’incarico di ekklisiarka, custode del tempio.
Giunse l’ora in cui Elia, pieno di anni, si affrettava verso Colui che amava. Chiamati dunque tutti, con volto lieto disse: “E’ giunto il momento della mia partenza: il giorno è terminato e gli angeli che prenderanno la mia anima sono arrivati. Se custodirete i miei precetti, se camminerete come vi ho prescritto, non solo non mi separerò da voi, ma parlerò in vostro favore quando verrà l’ora del giudizio. Abbracciatemi per l’ultima volta, e non offrite pianti, ma silenzio”. Dopo aver esortato e consigliato tutti, rese lo spirito. Molta folla si adunò per onorare la sua gloriosa fine, e tutti cantarono inni per tre giorni: coloro che erano preda di malattie tornarono a casa guariti.
Il nostro Fantino, dopo venti anni di obbedienza, giunto al possesso del discernimento spirituale e appreso le divine dottrine, fatto esperto sul come regolare – nei tempi e nei modi – la preghiera, abbraccia la vita eremitica, e detto addio al mondo, con l’unica tunica e il mantello che indossava, esce dal monastero, e si dirige verso i monti della Lucania[4]. 
Giunto che vi fu, e trovato che ebbe un luogo rispondente, rese grazie a Dio. Ma il diavolo lottava per trascinarlo nelle sue reti: ora lo spaventava con strepiti nel cuor della notte, ora gli moveva contro serpenti smisurati. Egli però, usando a difesa il segno della Croce, rendeva vane le macchinazioni dell’ingannatore. Un giorno il santo stava dormendo al riparo di una roccia: i demoni cercarono di spingerla giù per schiacciarlo con essa, ma la Grazia increata scagliò lontano il macigno, e salvò Fantino. Un’altra volta, il nemico prese l’aspetto dei genitori, che così piangevano: “Figlio nostro dolcissimo, lascia questo deserto; ritorna, abbandona questa solitudine!” Ma egli si mise a cantare Il Signore è mia luce e mio salvatore e Non avrò paura dei miei nemici.
Una volta si imbatte in un branco di cinghiali che mangiavano pere selvatiche. Era inverno, e faceva un freddo intenso; Fantino era intirizzito dal gelo (era infatti nudo, giacché la tonaca in un anno si era distrutta), ed era affamato, dato che si nutriva di radici e germogli. Quando gli animali videro che il santo si avvicinava alle pere, si scagliarono da ogni parte contro di lui. Ma egli parlò alle fiere: “Siete esseri privi di ragione e di sentimento, io invece sono a immagine e somiglianza di Dio”. Alle sue parole i cinghiali si ritrassero.
Una volta il beato, tormentato dal freddo, si mise a correre per riscaldarsi. Ma poiché nel correre era ancor più percosso dal gelo, si infilò in una balla di lino messa a macerare sulla spiaggia; però i topi – trovando il corpo del santo disteso e come privo di vita – si misero a dilaniarlo. Appena cominciò a svilupparsi calore, Fantino rinvenne con le membra tutte divorate. Quali e quante furono le prove che affrontò nel corso di diciotto anni, da quando lasciato il monastero prese dimora su quei monti!
Venne alfine il momento in cui Dio si compiacque di elevare quel luogo a propria dimora, e dispose che Fantino riunisse un’accolta di monaci. A tal fine, la Provvidenza fece sì che da lungi lo scorgessero alcuni cacciatori, suoi vicini di casa. Costoro riconobbero il santo e avvisarono i genitori. Essi si affrettarono a raggiungerlo e, quando arrivarono, ecco che Fantino si fece loro incontro. Dopo che si scambiarono la benedizione, Fantino disse ai genitori: “Andate a casa, vendete tutti i vostri averi, date il ricavato in elemosina e tornate da me, per imitare la povertà di Cristo”.
Essi acconsentirono e tornarono presso il santo. Intanto, il divino zelo invase molti, e li convinse a riunirsi insieme sulla montagna. Fantino costruì allora dei monasteri, tra i quali uno per la madre e la sorella, e uno per il padre e i fratelli Luca e Cosma. Così Fantino trasformò le balze inaccessibili dei monti in dimore di uomini santi. Egli però bramava la solitudine e il deserto di poco prima. Perciò, pose economi nei cenobi (suo fratello Luca in quello principale)[5]. 
Quindi di notte – a piedi nudi, con una pelle di capra che gli copriva il corpo – andò via di nascosto, per recarsi in un altro luogo. Ma quelli che vi abitavano [i Langobardi] lo legarono come spia [dei Romani] e lo gettarono in una prigione sotterranea. Là era preda dai pidocchi, e non sapendo cosa fare, prese dei cocci, e con essi si raschiava il corpo tutto coperto dagli insetti che lo molestavano. Finalmente lo tirarono fuori, del tutto sfigurato. Egli si allontanò di là verso una regione dotata di acqua perenne e sovrabbondante di pace; qui passò un periodo assai lungo, poi ritornò al monastero. Sua occupazione era il trascrivere codici, e il levare notte e giorno inni a Dio.
Una volta, mentre camminava lungo la spiaggia e i suoi confratelli stavano sulla barca, d’un tratto apparve dai monti un tale che strepitava a gran voce e digrignava i denti come fuori di sé: afferrò il santo, lo sollevò in alto e cercava di gettarlo in mare. Quelli della barca si affrettarono a soccorrere il padre, ma il beato Fantino disse placidamente: “Lasciate, figli, che il mio nemico mi faccia guerra come vuole”. E in men che non si dica quell’uomo, gettato a terra dai demoni, rimase esanime. Fantino, presolo per mano, subito rimise in piedi sano l’indemoniato e, fattolo fare monaco, lo rese perfetta dimora dello spirito di Dio.
Molti accorrevano a lui, quanti non si può immaginare; ed egli curava coloro che erano in preda a malattie o che zoppicavano nell’anima. Tutto a tutti egli si fece, per guadagnare tutti o i più; egli era in grado di conoscere chiaramente le profondità dell’animo. Egli conservava perfetta l’immagine di Dio impressa nell’uomo al momento della creazione e, divenuto un nuovo Adamo, trattava da amici le belve e i rettili. Aveva nel monastero delle api, e un’orsa le divorava. Fantino le disse: “Le cose di qui ti comando di non toccare”. Essa non fece più danno.
Una volta le mule al pascolo si allontanarono, e i monaci andarono a cercarle. La fatica del cammino provocò in loro una gran sete, e il servitore del santo, Ciriaco, andò un poco più avanti; appena ebbe invocato il padre, zampillò un getto d’acqua abbondantissimo. Dopo aver bevuto, egli tornò subito indietro, per indicare l’acqua agli altri: ma come essi giunsero l’acqua finì. Tutti allora gridarono: “Santo di Dio, Fantino!”, ed ecco che una asciutta rugiada immediatamente zampillò nei loro cuori, e ne furono rinfrescati al pari di colui che aveva bevuto l’acqua[6]. 
Una volta il santo sentì il desiderio di andare al [Gargano, al santuario del] Santo Angelo, della città di Siponto [Manfredonia], e di mirare con i propri occhi lo splendore che colà ne emanava. Prese perciò con sé il detto Ciriaco e altri due, e partì. E in diciotto giorni lo raggiunse a piedi, senza mangiare né bere: poi dall’Ora nona [15 circa] fino all’indomani, quando ricevette la comunione, rimase in veglia senza sedere. Infatti egli era solito restare in piedi dall’Ora nona fino alla Divina Liturgia. Or dunque, dopo la partecipazione ai divini Misteri, il servo di Dio chiese dell’acqua, così che grazie a essa e col sussidio dell’antidoron, del pane benedetto, si aprisse un passaggio nell’interno del corpo, poiché la gola gli si era seccata per la troppa astinenza: ma appena l’acqua del primo bicchiere scese giù, si produsse uno spasmo delle viscere, e ne derivarono dolori su dolori; perciò a fatica il santo ritornò al monastero.
Una notte, dopo il termine dell’Ufficiatura, ritiratisi tutti i monaci dal kiriakòn, dalla chiesa principale, egli restò dove stava e, levato lo sguardo e le mani verso il cielo, stette fino a sera senza respirare. Quando infine tornò in sé, chiese: “Cosa è questo cicaleccio? che ora è?” Essi dissero che era l’undecima ora [17 circa]; allora egli comandò loro di terminare l’Ufficio del Lucernale, del Vespro. Dopo di che presero a supplicarlo di dir loro ciò che aveva visto. Allora il santo così disse: “Fratelli e padri miei, vi consiglio di rinunciare a tutto e di andare via di qua nudi”.
Detto così, e gettata via la tunica, se ne andò nudo per i monti. Da quel momento prese a star senza bere, senza mangiare e senza alcun vestito perfino per venti giorni di seguito. Si nutrì per quattro anni di erbe selvatiche, e di niente altro. Inoltre, rintracciato e tratto a forza a casa, subito il santo ritornava là dove si aggirava prima, preferendo le fiere agli uomini. Ma un giorno, passato che fu molto tempo, tornò al monastero (coprendosi appena il davanti col mantello), e annunciò lietamente: “Viene il grande Nilo! Andiamogli incontro”. Subito arrivò Nilo, ed ecco ciò che Fantino rivelò a Nilo (e sul finire della sua vita anche a noi):
“Dopo la fine della preghiera comune, poi che ebbi elevato le mani, la mente e gli occhi verso l’Altissimo, mi sembrò di vedere in spirito uno splendore: e due esseri sfolgoranti mi presero e mi portarono fuori del mondo. Incontrai allora sciami di esseri oscuri, e fui tutto pieno di orrore per il loro tumultuare; fino alle porte del cielo mi toccò di incappare in siffatti esseri, fra i quali mi facevano passare coloro che mi portavano. Improvvisamente vidi una regione splendente di luce e sentii echeggiare un inno ineffabile, e deposi il turbamento che avevo. Poi tuonò una voce, che fece risuonare canti meravigliosi, e sfavillò un fuoco straordinario. Fui iniziato a misteri che non si possono narrare, e udii queste parole: Mostrategli tutto ciò che è stato preparato per ciascuno. Coloro che prima mi avevano portato colà, mi condussero in un luogo pieno di fumo maleodorante. E vedo là un grande fuoco completamente privo di luce; in mezzo a esso pendeva una specie di antenna fiammeggiante: alcune anime giudicava che potessero andare oltre, altre invece le respingeva nel fuoco. Stavo per svenire a questo spettacolo spaventoso, quando i miei accompagnatori mi presero e, oltrepassata l’antenna fiammeggiante in mezzo all’enorme distesa di fuoco, mi condussero in un luogo splendente e piacevole, ed ecco mio padre e mia madre! Abbracciandomi, mi dissero: Vedi di quali beni ineffabili e immortali sono fatti eredi qui per l’eternità coloro che servirono il Signore, e con tutte le energie furono servì fedeli sino alla fine! Poi i miei accompagnatori mi separarono a forza dai miei genitori, e mi condussero là dove si levava l’inno armonioso. Qui udii dire: Va’ ad annunciare nel mondo ciò che hai visto!”.
Nilo allora, colpito da queste parole, coprì di rimproveri tutti coloro che abitavano il monastero di Fantino, “perché” – diceva – “un uomo simile, che è salito fino al terzo cielo e ha udito cose ineffabili, lo giudicaste un mentecatto”[7]. 
Trascorso molto tempo, una notte fu rivelato al santo che sarebbe andato a Tessalonica. Assicuratosi che questo era davvero un comando di Dio, Fantino convocò tutti i monaci intorno a sé nella chiesa, e rivolse loro questi ammaestramenti: “Padri, fratelli, figli! Finché abbiamo tempo, camminiamo onestamente; finché è giorno, seguiamo il sole. Avanza inesorabile la notte, quando nessuno ormai può lavorare. Esortiamoci a vicenda, dicendo qual è la tenebra esterna, il fuoco inestinguibile, il verme che non dorme, lo stridore di denti, le catene indissolubili, il Tartaro, il pianto inconsolabile, come si avvolgerà il cielo al pari di un rotolo, come le stelle cadranno e il sole si oscurerà; come si apriranno i cieli e il giudice scenderà, e le potenze, sconvolte, accorreranno, e sarà preparato il terribile trono, e il suolo sarà scosso al passo del giudice; come incontro a lui si affretteranno i santi e saranno fatti degni di dimorare con Cristo”.
Dopo aver dato ai monaci questi ammonimenti e molti altri, presi come compagni di viaggio Vitale [?] e Niceforo [il Nudo], si imbarcò su una nave che si accingeva ad attraversare il mar Ionio per raggiungere l’altra sponda. Venuta a mancare l’acqua potabile per il gran numero dei passeggeri, tutti insieme si rivolsero al santo. Egli li esortò a riempire di acqua marina tutti i recipienti che avevano; e poi che essi ebbero eseguito ciò con fede, Fantino, fissato lo sguardo al cielo e fatto con la mano il segno della croce su tutti i vasi, bevve primo fra tutti. Quando poi anche gli altri bevvero e si rinfrescarono, lodarono come meritava il singolare prodigio. Giunti che furono alla terra ferma, quella che era prima acqua di mare riprese la sua natura.
Partito poi di là, il santo giunse nel Peloponneso; entrò quindi a Corinto, e dopo in Atene: e subito la fama tutti condusse a lui. Passò poco tempo, e una malattia lo mise a letto. Tutti si aspettavano che egli ne sarebbe morto, ma egli disse ai presenti: “Perché mi affliggete? Fantino vedrà la fine nella terra dei Tessalonicesi”. Dette queste parole, rimandò tutti a casa; e ricuperata sull’istante la salute, parti di là e raggiunse Larissa. Qui per parecchio tempo dimorò presso il tempio di sant’Achillio. Un giorno esclamò: “Ah, quanto è bello questo luogo! E pensare che cadrà in mano ai nemici! [Bulgari]”
Dopo aver detto così, benedetti tutti i presenti, discese alla riva del mare e, salito su una nave, approdò a Tessalonica. Entrato poi nel tempio del grande martire Mena, vi pose la sua residenza: subito andò a fargli visita colui che rivestiva la carica suprema nella città e l’arcivescovo.
Passati dunque nel detto santuario circa quattro mesi, il glorioso Fantino si stabilì colà dove trascorse il resto della sua esistenza e pervenne al termine della vita[8]. Ogni giorno molti si presentavano a lui per esserne beneficati nell’anima e insieme nel corpo. Un certo Antipa, afflitto da un insopportabile mal di testa, una volta vide Fantino che gli diceva: “Tu conosci la straordinaria preghiera di san Filippo di Agira!” Recitando la preghiera, Fantino si mise a massaggiargli la testa, ed ecco che fiotti di pus gli uscirono dalle orecchie. Vedendo ciò, Antipa capì che la visione era stata realtà, non sogno; a dire il vero egli conosceva quella preghiera, ma se ne era dimenticato.
Una volta Fantino si recò con Antipa alla porta Cassandriotica, e stette seduto fino alla quarta ora; poi rapidamente si diresse verso il tempio della grande martire Anisia, e si fermò presso la strada che porta verso sud, lungo il passaggio. Ed ecco due monaci provenienti dal monte Athos, che passavano nella direzione di Atene. Fantino, caduto prono ai loro piedi, chiedeva la benedizione: essi però passarono oltre senza fermarsi. Antipa fra sé li accusava di superbia, ma il grande Fantino disse: “Smetti di giudicare: uno è Atanasio, e l’altro è Paolo”[9]. 
Un giudice che aveva messo le mani sulla carica con lo scopo di arricchirsi, cercava di portare in suo potere ogni cosa. Fantino, mosso dalla compassione e dal lamento dei poveri, cercava di salvare quelli che erano angariati da mani troppo dure e da chi li defraudava, e spesso supplicava il suddetto giudice perché recedesse dalle sue azioni ingiuste. Ma quello, sempre più adescato nell’animo dall’avidità di denaro, respingeva le parole del santo facendosene beffe. Il grande Fantino allora, visto che costui si era gonfiato troppo, esclamò dinanzi a tutti: “Signore, sorgi nella tua ira, e di ciò che appartiene a questo insensato tutto distruggi fino all’ultima pietra”. I cittadini in massa si impadronirono infatti di tutto ciò che il giudice possedeva, e a malapena costui poté salvare la vita.
Un fatto simile avvenne anche al duca di Tessalonica [10], colui che aveva la somma carica della città, nel caso di una vedova indifesa e di un orfano. Il duca ritenne che la richiesta di Fantino non fosse accettabile e quindi non diede ascolto al santo, e lo mandò via. Ma quell’uomo ispirato da Dio, disse: “Signor duca, attento! Ti pentirai invano!” Egli fu infatti assalito da febbre violenta, e allora mandò uno a supplicare il santissimo Fantino. Alle preghiere di costui subito il santo tornò pazientemente indietro e in men che non si dica guarì il duca dalla febbre.
Una volta un povero cercò rifugio presso Fantino, poiché era stato calunniato presso il governatore. Fantino gli disse: “Portagli due polli!” Ma il povero nulla possedeva; allora il santo lo prese per mano e lo condusse nell’orto, e subito tre gru scesero in volo: Fantino prese una gru e la diede a quel misero. Questi portò il dono, e colui che prima era il suo persecutore non gli diede più fastidio.
Un alto funzionario era solito mandargli in dono del pane, tramite una serva. Questa aveva gli occhi malati, e un giorno il santo tirò su una zolla da terra, spalmò con essa gli occhi di lei sì da renderli completamente invisibili, e poi la invitò a lavarsi il viso. La donna si lavò con fede, e i suoi occhi ritornarono belli.
Un tale, afflitto da cefalea e sofferente di mal di denti, alla porta Cassandriotica incontrò san Fantino. Il santo gli diede uno ceffone e continuò per la sua strada: quello restò di stucco, ma poi scoprì di non aver più alcun dolore.
Un tale, a letto da lunghissimo tempo, era agli ultimi rantoli. Venne Fantino e impose le sue mani sulle membra del morente, a una a una. L’infermo si ricoprì di sudore, e quello che prima era considerato spacciato si trovò pieno di salute.
Una vecchia filatrice, dovendo a un tale molte monete d’oro, andò dal santo. Fantino si pose una fune intorno al collo, e comandò a quella donna di trascinarlo a casa del duca. Quando il duca lo vide, chiese che cosa fosse accaduto. E Fantino rispose: “Ho un debito con questa donna, e per questo mi sta trascinando così”. Essi allora donarono generosamente di che soddisfare il debito della donna.
Una volta, mentre camminava a piedi nudi nella neve, attanagliato dal freddo, gli si fece incontro una vecchia, con l’idea di ricevere qualche spicciolo. Il santo non aveva nulla, e perciò le diede la tunica in cui si avvolgeva.
Una volta un monaco di grande spiritualità, si scandalizzò a causa di Fantino. Alcune donne di malaffare erano sedute attorno a Fantino, intente a togliergli i pidocchi dalla tunica, e quindi il santo era tutto nudo. Trovato poi il suddetto monaco in chiesa, Fantino lo chiamò e gli disse pacatamente: “Lo so che ti sei scandalizzato, poiché sei un essere umano; ma io per grazia divina sono di marmo”.
Una volta i Bulgari razziavano le nostre regioni e il duca Pediasimo stabilì che quanto era all’esterno delle mura della città venisse bruciato [per motivi di sicurezza], e anche al nostro monastero decise che toccasse tale sorte, poiché era addossato alle mura. Ma Fantino replicò al duca: “Non preoccuparti; il suolo sarà ricoperto dei cadaveri dei Bulgari”. La profezia del santo non fallì [997?].
Due fratelli, che erano pieni di reciproco affetto, si trovarono a esser gonfi di veleno e di inimicizia per opera del nemico malvagio e invidioso. Il beato Fantino, riuscì a farli incontrare; poi in segreto rivelò loro il futuro, e finalmente li unì nell’amore. Giunto il sabato, secondo la profezia di Fantino, dolcemente uno spirò nelle braccia dell’altro.
Un pentolaio nutriva ormai da sette anni un’inimicizia implacabile nei riguardi di suo figlio. Il grande Fantino mutò in amici coloro che prima erano inconciliabili. Da allora essi divennero davvero padre e figlio.
Giunse cosi il tempo in cui anche Fantino, pieno di anni e di virtù, doveva andarsene verso Colui che amava. Molti accorsero a lui al diffondersi di tale notizia: fra questi anche Simeone, insigne fra i monaci per ascesi e per dottrina profana, e Fozio. Ma Fantino disse: “Rimarrò così come vedete per tutta questa settimana; me ne andrò sabato prossimo, dopo la Veglia. Piuttosto, Dio ci salvi da Pietro Skliro! Egli si accinge a scrivere il libro Riflessioni, e non sa come andrà a finire!” [11] 
Egli dunque depose lo spirito nelle mani di Dio, essendo nel 73° anno di età [12]; partì così dalla vita sensibile per entrare definitivamente nella vita nascosta con Cristo in Dio, e si trasferì là dove è la dimora degli eletti. Tale fine ebbe il beato, e così previde il suo passaggio al Signore e la sua dipartita dal corpo.
Per la cerimonia funebre del terzo giorno [13] dalla sua morte, fin dalla sera si stavano cantando salmi in una veglia affollatissima, quando a un tratto dalla sua tomba si sprigionò un profumo assai strano. Mentre tutti, interrotti gli inni, gridavano Kirie, eleison!, ecco arrivare una donna che aveva una mano paralizzata: la misera unse l’arto rattrappito con l’olio della lampada e subito guarì. Anche il nono giorno rimanemmo in veglia, e il profumo non scompariva. C’era fra gli astanti un monaco che aveva un tumore al petto. Ed ecco vede il santo con un rasoio in mano, che faceva come per inciderlo. Subito per la paura si sveglia, ed era guarito.
A un monaco, preda di un demonio sfrenato, apparve in sogno Fantino e gli disse: “Accendi in una lampada olio mescolato con vino, e poi bevilo tre volte”. Il sofferente bevve fiduciosamente, e tornò a casa purificato per grazia di Fantino: raggiunto poi il monte Athos, divenne dimora dello spirito divino.
Un tale che soffriva di ritenzione di orina bevve un miscuglio di acqua consacrata e di terra presa dal sepolcro di Fantino, e subito guarì.
Un vasaio era stato costretto a letto da una lunga malattia; salute e agiatezza lo abbandonarono, e sua moglie dovette piegarsi a mendicare il pane di casa in casa. Gli si presentò san Fantino che gli prese tra le mani la testa, e d’un tratto gli sgorgarono insieme da orecchie e naso fiotti di sangue che inzupparono il giaciglio. La mattina seguente si alzò guarito.
Un tale, trovandosi nella Città imperiale, chiedeva un’icone di Fantino. Lo indirizzarono a un valente artista, che era idropico, completamente immobile da tre anni. La notte seguente Fantino si recò visibilmente presso l’idropico e, fermatosi ai piedi del letto, disse: “Alzati e dipingi fedelmente Fantino, così come mi vedi”. Quegli sentì uno stimolo nella vescica, evacuò tutto, fra cattivi odori, e riacquistò la salute. Si mise subito a disegnare colui che aveva dinanzi agli occhi; ma al battere del segnale della mezzanotte l’apparizione scomparve. Però la notte seguente il santo si presentò nello stesso modo, e la copia della sua immagine fu così portata a termine.
I Bulgari catturarono il servo di un tale; mentre era rinchiuso in catene nella città di Calidro, il santo si presentò visibilmente al prigioniero, e lo liberò immediatamente dalle catene; poi lo condusse fuori, senza farsi vedere né dalle guardie né dai compagni di prigionia, e lo portò nella città di Kitro dove, trovata una nave, lo nascose nella stiva. I marinai partirono di là, e la mattina presto giunsero a Tessalonica. Ma uno andò nella stiva e vide là dentro un uomo addormentato: egli spiegò di chi era servo, come era stato catturato, e aggiunse: “Quanto a colui che mi trasse fuori della prigione, era un monaco massiccio nel corpo, che incuteva timore all’aspetto, bianco di capelli, di statura media, a piedi nudi, e con la barba non molto lunga”. Il suo padrone, ricuperatolo così, lo condusse nel tempio di Fantino, e non appena l’ex-prigioniero vide l’icone del santo, esclamò: “Ecco chi mi ha liberato!”.
Una monaca aveva delle scrofole nel collo, e chiese la guarigione a Fantino; egli ebbe pietà di lei, e le fece scomparire tutte completamente.
Come avvenne per san Paolo, i cui fazzoletti mettevano in fuga malattie e demoni, così avvenne anche per Fantino … [il manoscritto è mutilo]
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La memoria del santo ricorre al 14 novembre; poiché nello stesso giorno l’ortodossa Chiesa cattolica esalta il vanto di Tessalonica, il santissimo pontefice Gregorio il Palamas, Fantino è celebrato al 30 agosto (data che forse ricorda qualche traslazione delle reliquie).

Note:
1) Monaca Maximi, O osios Fantinos o en Thessaloniki, Ormilia 1996.
2) Il nome è un po’ insolito: santa Vrieni, zia di santa Febronia, fu igumena d’un monastero di Sibapoli (Nisibis) in Persia. 
3) Lungi dall’essere modesto, l’incarico è di una certa importanza: il cuoco deve infatti saper districarsi tra astronomia e matematica – per calcolare le date del calendario – e conoscere a perfezione il typikon che regola, giorno per giorno, la dieta monastica.
4) Ovvero, il massiccio del Pollino (dalla vetta, 2248 metri slm la vista si spinge sino alla Puglia), tutto grotte, doline, inghiottitoi e orridi.
5) Le ‘Vite’ di quasi tutti i santi vissuti nella Regione del Mercurio sembrano copiare questa pagina.
6) L’episodio ricorda l’acqua della conoscenza che disseta l’anima assetata di santa Fotinì: vedi Giovanni 4, 5-42. 
7) Nella Vita di Nilo la visione di Fantino è diversamente interpretata.
8) In un monastero fuori le mura di Tessalonica, non lontano da Porta Cassandriotica.
9) Sant’Atanasio di Trapezunte (circa 920\1003) fondò all’Athos la Grande Laura; san Paolo invece rifondò, sempre all’Athos, il Monastero di Xiropotamo.
10) Venezia è la città romana che ha mantenuto più a lungo la carica di dux \ duca (doge). 
11) Si ignora a quale Autore, e a quale opera Fantino faccia riferimento.
12) Si tratta ovviamente di età monastica: Fantino si sarà addormentato nel Signore a più di novanta anni anagrafici. La differenza età monastica \ anagrafica non sempre è stata considerata dagli eruditi, che perciò spesso hanno ricostruito quadri cronologici del tutto inaccettabili.
13) E’ tradizione della Chiesa compiere servizi funebri al terzo, nono e quarantesimo giorno dalla morte, nonché al terzo, sesto, nono e dodicesimo mese, e in ogni anniversario.

  • Memoria di San Simone greco di Calabria monaco e taumaturgo sul Monte Mercurio (verso il X secolo)

Archimandrita Antonio Scordino

San Simone greco di Calabria monaco e taumaturgo sul Monte Mercurio (verso il X secolo)

“Viveva egli in un cenobio della Calabria  quando alcuni suoi confratelli, forse mentre erano a pesca in mare con un giovane servo del monastero, furono catturati dai Saraceni e venduti come schiavi. L’igumeno incaricò Simone di andare in Africa per rintracciarli ed egli infatti riuscì a incontrarne uno; mentre parlava con lui per scoprire dove fossero gli altri, ecco sopraggiungere il padrone, che stese la mano per colpirlo: subito restò paralizzato. Anche un altro saraceno, ch’era con lui, si trovò con la mano paralizzata. Gli astanti allora afferrano Simone, lo portano dall’Emiro e dicono: “Questo qui è uno stregone! Ha fatto seccare la mano di quelli che volevano colpirlo”. Di parere totalmente diverso furono i mullâh, i saggi che facevano parte del Consiglio dell’Emiro: “Forse è invece un servo di Dio e, con le sue preghiere, può risanare”. Simone infatti fa un segno di croce sulle mani paralizzate, ed esse subito si sciolgono. Vedendo il prodigio, l’Emiro concede a Simone di riprendersi i quattro ch’era andato a cercare, e anche quanti altri cristiani volesse. Non solo: l’Emiro colma Simone di doni, e dispone una scorta per garantire la sua sicurezza nel viaggio di ritorno.

Salparono dunque dall’Africa e durante la navigazione i Saraceni restarono ammirati nel vedere Simone immerso nella Preghiera continua. Costretti dai venti contrari a fermarsi presso un isolotto, consumarono ben presto tutta l’acqua che avevano stivato. Ma il santo pregò su alcuni barili che aveva fatto riempire d’acqua di mare, ed essa divenne dolce: Simone compì questo miracolo diverse volte, finché tutti poterono approdare in Calabria, dove il santo in seguito si addormentò nel Signore”

 (citazione interamente tratta da Ombre della storia, santi dell’Italia Ortodossa di Antonio monaco Edizione Asterios pagina 100)

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