- Memoria del nostro santo Padre GIOVANNI il MISERICORDIOSO, arcivescovo d’Alessandria
a cura della Chiesa Greco-Ortodossa di San Paolo Apostolo dei Greci, Reggio di Calabria
San Giovanni era il discendente di una illustre famiglia di Amathonte in Cipro. Sotto l’insistenza dei suoi genitori, si sposò ed ebbe molti bambini che, per volontà di Dio, morirono giovani, così come la sua sposa. Vedendo in questa dolorosa privazione l’occasione di liberarsi da ogni sollecitudine mondana, egli si consacrò completamente a Dio. Nel 610, fu consacrato Patriarca della Chiesa di Alessandria, col nome di Giovanni V. Lo stesso giorno, riunì tutto il clero e il personale della ricca metropoli d’Egitto e li inviò a fare la recensione di coloro che egli chiamava i suoi << MAESTRI >>: cioè i poveri ed i mendicanti Dio piazza presso di noi perché noi guadagniamo il Regno dei Cieli facendo loro l’elemosina. Poiché ne furono trovati più di 7500, egli comandò che venisse dato loro ogni giorno il nutrimento e la copertura che era loro necessaria. Egli diceva spesso a Dio nella sua preghiera:<< Noi vedremo ben Signore, chi dei due sarà vittorioso in questo combattimento: o Tu in me facendomi sempre del bene, o io, non cessando di distribuirlo ai poveri. Poiché io riconosco di non possedere niente che non proceda dalla Tua misericordia e che è lei che sostiene tutta la mia vita >>. Infatti la misericordia del santo riguardo ai poveri era insuperabile; le sue elemosine erano abbondanti come le acque del Nilo che coprivano periodicamente le Terre d’Egitto per renderle fertili. È perciò che egli ricevette il nome di << Misericodioso >>, a immagine del Cristo, suo maestro, che è la sorgente di ogni misericordia. Egli non poteva vedere un povero o un afflitto avvicinarsi a lui senza piangere abbondantemente e senza prendere su di lui la sua pena. Egli donava senza contare attingendo al tesoro della Chiesa. Come il Cristo ha insegnato (Lc 6,35), egli donava senza alcuna distinzione tra i buoni e i cattivi, i degni o gli indegni. Un giorno un povero che aveva già ricevuto da lui l’elemosina, si presentò altre tre volte al santo, confondendosi sotto travestimenti diversi. Poiché lo si fece notare a Giovanni, costui ordinò che gli si donasse il doppio, dicendo: << Potrebbe essere Gesù, mio Salvatore, che viene appositamente a tentarmi >>. Ma, più egli spargeva l’elemosina, senza badare alla quantità o a ciò che sarebbe stato il domani, più Dio moltiplicava le donazioni indirizzate alla Chiesa: talmente bene che il popolo era confermato nella promessa << Non vi preoccupate per la vostra sopravvivenza di ciò che avrete da mangiare o da bere, né di ciò che avrete sul corpo per vestirvi (…) cercate in primo luogo il Regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà donato in più! >> (Mat. 6). Uno del clero incaricato delle elemosine, (chiamato elemosiniere), non aveva dato altro ad un ricco che era nel bisogno che un pizzico della grande fortuna che il santo gli aveva ordinato di distribuire, giudicando che era irragionevole dividere il tesoro per uno solo ma rimase confuso dalle parole di Giovanni quando questi gli rivelò che una nobile donna che aveva deciso di fare una importante donazione alla Chiesa, aveva solamente dato un pizzico della somma prevista.
Quando nel 614, i Persiani invasero la Siria e presero sanguinosamente la città di Gerusalemme, un gran numero di rifugiati affluì verso Alessandria. San Giovanni li ricevette come fratelli, li consolò, fece costruire ospedali ed alberghi ed esaurì tutte le risorse della Chiesa per vestirli e dar loro dei soldi. Nello stesso tempo fece inviare in Palestina delle navi cariche di grano e viveri e degli operai per ricostruire le chiese distrutte. Egli stesso visitava i malati e i bisognosi e mostrava nella sua persona un riflesso della presenza di Cristo. Quando qualcuno lo ringraziava della beneficenza, egli interrompeva subito il suo interlocutore dicendo:<< Taci, fratello mio, perché io non ho ancora sparso il mio sangue per te, come il Signore domanda! >>. Tutti i mercoledì e i sabati egli stava alla porta della sua chiesa e aspettava che si andasse da Lui per chiudere le liti e riconciliare i nemici. Mai lo si sentiva pronunciare una parola vana o condannare chiunque sia, neanche avanti ai più incalliti peccatori. Egli vedeva solo il bene o le buone intenzioni, supponendo che questi peccatori avessero fatto penitenza in segreto e si guardava bene dal formulare un giudizio che apparteneva solo a Dio. Egli ringraziava coloro che lo calunniavano o lo ingiuriavano per avergli ricordato i suoi peccati e facendo loro elemosine più grandi che agli altri. Per correggere i peccatori che volevano correggersi, gli orgogliosi o i duri di cuore, il santo patriarca si rivolgeva ad essi sempre attribuendosi i peccati che voleva riprendere e chiedendo loro di pregare poiché egli si pentisse. Egli esortava con pazienza i suoi fedeli all’umiltà e al pentimento, ricordando loro le meraviglie che Dio ha fatto per noi creando il mondo e inviando il proprio Figlio per salvarci e facendo pazienza avanti ai nostri innumerevoli errori. Ma più che la parola, egli preferiva trasmettere l’insegnamento della Santa Scrittura con le proprie azioni, come i Profeti. Così, una domenica, mentre celebrava la Divina liturgia in cattedrale, circondato dal clero e da tutto il popolo, il Patriarca si fermò improvvisamente prima di pronunciare le parole della consacrazione, e chiese al diacono di ripetere le litanie e inviò a cercare uno del clero della sua Chiesa. Quando questo arrivò, il vescovo si prostrò avanti a lui con lacrime e gli chiese perdono e fu solo dopo essersi riconciliato e averlo abbracciato che risalì sull’altare e continuò la celebrazione, avendo applicando alla lettera il precetto del Signore (Mt 5,23). Benché fosse stato sposato, san Giovanni amava i monaci e li superava nell’austerità della vita. Egli aveva riunito presso la sua cattedrale due comunità monastiche e si prendeva cura di loro. In cambio aveva chiesto loro di pregare per lui e la Chiesa durante gli offici che essi celebravano e di pregare per la loro salvezza per tutto il resto del tempo nelle loro celle liberi da ogni preoccupazione grazie alla sollecitudine del patriarca. Egli abitava in un ricco palazzo ma non possedeva niente di proprio, la sua cella era sprovvista di ogni comfort, perciò un notabile della città gli offrì un giorno una lussuosa coperta. La notte seguente il santo non poté trovare riposo e non cessava di condannarsi pensando che tanti poveri soffrivano il freddo e la fame alla sua porta mentre egli si avvolgeva in un tale lusso. L’indomani lo fece vendere e ne distribuì il prodotto ma quando il suo benefattore ritrovò il suo regalo sul balcone del mercante lo ricomprò e costrinse Giovanni ad accettarlo. Ma costui lo vendette di nuovo per farne elemosina. Poiché né l’uno né l’altro voleva cedere, l’oggetto circolò così un gran numero di volte tra le loro mani e fu per Giovanni l’occasione di costringere indirettamente questo ricco a distribuire una grande fortuna agli indigenti.
La sua carità e la sua fama non gli impedivano di mostrarsi fermo riguardo agli eretici monofisiti. Egli amava e spendeva per essi le sue beneficenze ma rimaneva duro nel condannare i loro errori e interdire agli ortodossi ogni partecipazione al loro culto e alle loro preghiere. Quando le carestie e le epidemie massacrarono la città, il santo fu il primo ad assistere gli ammalati e sotterrare i morti. Egli esortava i suoi fedeli a pregare assiduamente per i defunti e prendeva l’occasione di questa sciagura per ricordare loro la fragilità della nostra vita e l’urgenza di fare penitenza. Qualche anno dopo la presa di Gerusalemme, Alessandria fu a sua volta minacciata dai Persiani perciò, alla richiesta del governatore d’Egitto Niceta, Giovanni ritornò a Cipro, dove morì all’età di sessantaquattro anni (619), rendendo grazie a Dio di non avergli lasciato niente delle così grande ricchezze di cui egli era stato costituito sovrintendente a profitto dei poveri. Un poco prima del suo trapasso, egli vide apparire la stessa nobile vergine che aveva già visto all’età di quindici anni, e che allora gli aveva detto di essere la Misericordia in persona che incitò il Cristo a incarnarsi per la nostra salvezza e gli aveva promesso di aprigli il Regno dei Cieli. Qualche tempo dopo la sua morte, un olio profumato (myron) colò dal corpo del santo gerarca per la gioia e la consolazione dei fedeli.
- Memoria del nostro santo Padre MARTINO il MISERICORDIOSO, vescovo di Tours
a cura della Chiesa Greco-Ortodossa di San Paolo Apostolo dei Greci, Reggio di Calabria
Figlio di un ufficiale delle legioni romane, san Martino nacque nel 316 a Sabaria in Ongria, dove suo padre era in guarnigione. Egli fu però allevato nella patria della sua famiglia, a Pavia (Italia) e fu, secondo la legge in vigore, destinato a servire anche lui nelle armate. Dall’età di dieci anni, benché i suoi genitori fossero pagani, il ragazzo frequentava la scuola dei cristiani e chiese di essere ricevuto come catecumeno. Due anni più tardi, avendo sentito parlare delle fatiche dei solitari d’Oriente, decise di a partire lontano dai rumori del mondo per condurre vita monastica; ma dovette sottomettersi alla volontà dei suoi genitori e fu arruolato nell’armata.
Ma la sua professione non gli impediva di praticare le sante virtù evangeliche. All’età di diciotto anni, mente era di guarnigione in Gallia, incontrò un giorno d’inverno un povero nudo e morto di freddo alle porte della città. Vedendo che nessuno era toccato da compassione alla vista di questo spettacolo e benché on avesse altro che il suo mantello, avendo già distribuito ciò che aveva in elemosina, il servitore di Dio sguainò la sua spada, tagliò il mantello nel mezzo e diede una parte al povero rivestendosi con il resto, malgrado le risate di coloro che lo circondavano. La notte seguente vide Cristo apparirgli, vestito della parte di mantello con cui aveva rivestito il povero e gli sentì dire alla moltitudine di Angeli che lo circondavano:<< Martino, ancora catecumeno, mi ha coperto con questo mantello >>. Martino ricevette il santo battesimo poco dopo questo avvenimento e volle lasciare l’armate per divenire monaco ma cedette alle insistenze del suo tribuno e restò nel mondo, essendo già monaco in fondo se stesso. Egli ottenne congedo molti anni più tardi, mentre era ufficiale della guardia imperiale. Egli si precipitò allora a Poitiers, per legarsi al grande sant’Ilario (commemorato il 13 gennaio), omologo di san Atanasio per l’Occidente che, prima di essere inviato in esilio in Frigia, gli conferì il ministero d’esorcista e gli diede la benedizione per andare a vivere da solo in un luogo ritirato. Martino partì anche lui subito per la Pannonia, per convertire i suoi vecchi genitori e condusse sua madre alla fede e, trovandosi queste regioni dell’Illirico agitate dai litigi dell’arianesimo, affrontò da solo la lotta contro gli eretici, da fedele discepoli del suo Padre spirituale Ilario.
Dopo aver sofferto molti cattivi trattamenti, tornò in Italia, a Milano a apprese che la Chiesa di Gallia era ugualmente nel caos dopo la partenza d’Ilario; per cui si stabilì in una cella solitaria per dedicarsi alla contemplazione di Dio, cosa che già desiderava da molti anni. Ma anche lì fu esposto agli ariani e, scacciato dal vescovo eretico di Milano, Assenzio, partì a rifugiarsi in una piccola isola della costa ligure, Gallinara.
Quando apprese che Ilario era ritornato dal suo esilio, Martino corse a raggi ungerlo e si installò in una stretta cella, a Ligugè, non lontano dalla città di Poitiers. La vita monastica era ai suoi inizi in Gallia e san Martino ne fu l’iniziatore, ma il suo zelo per le opere sante e per la preghiera gli regalò molta scienza, ben oltre quella dei monaci più sperimentati d’Oriente, per cui molti altri aspiranti alla vita angelica non tardarono ad unirsi a lui per divenire suoi discepoli.
Una decina d’anni più tardi, il seggio episcopale di Tours essendo rimasto vacante, il clero ed i fedeli della città arrivarono, con l’aiuto di uno stratagemma, a strappare il servitore di Dio dalla sua solitudine e consacrarlo suo malgrado vescovo (371).
Questo cambio di stato non gli fece tuttavia cambiare il suo modo di vivere: stessa umiltà nell’anima, stessa povertà nei vestiti e nel nutrimento. << Egli aveva tutta la dignità di un vescovo, senza abbandonare il genere di vita e la virtù di un monaco >>, dirà il suo biografo Sulpicio Severo. Egli rinunciò perfino ad alloggiare nella ricca dimora episcopale e si installò in una cella vicino la chiesa ma, disturbato costantemente dai visitatori nelle sue sante occupazioni, si installò in seguito in un eremitaggio, situato in un luogo deserto, a due miglia dalla città: quello che sarebbe diventato il celebre monastero di Marmitier. Il vescovo abitava una cella di legno e i numerosi fratelli che andavano ad aggiungersi stabilivano le loro dimore nelle grotte della montagna sovrastante. Vivevano lì intorno circa sessanta monaci che vivevano in una perfetta povertà evangelica: non possedendo niente di proprio, vivevano uniti in fraterna carità, lavorando solo il minimo necessario ai loro bisogni e consacravano i loro giorni e le loro notti alla preghiera e alla meditazione, sotto la paterna direzione di san Martino. Amante della solitudine il servitore di Dio era nondimeno vescovo cosciente della sua missione apostolica in Gallia ancora sollo in parte cristianizzata. Il Vangelo era penetrato nelle città, ma le campagne erano ancora dedite al culto idolatrico ed alla superstizione. Fu martino che organizzo la prima delle parrocchie rurali nella sua diocesi: egli percorreva le campagne proclamando il messaggio della Salvezza, confermando la veridicità delle sue parole attraverso numerosi miracoli e conducendo le popolazioni pagani a distruggere essi stessi i templi degli idoli per rimpiazzarli con delle chiese. La reputazione di taumaturgo del vescovo di Tours divenne così grande che oltrepassò i limiti della sua diocesi e si poté chiamare << l’Apostolo delle campagne >>. Dovunque egli passasse i miracoli abbondavano, i malati guarivano, i morti resuscitavano, gli increduli ritrovavano la fede, così come il Cristo stesso fosse presente di nuovo nella persona del santo.
La sua reputazione era così grande che la sua autorità si imponeva perfino sui più alti personaggi. Per tre volte andò a Treviri, residenza dell’imperatore d’Occidente, per intercedere a favore del suo popolo e per ottenere dall’imperatore Massimo, che usurpò il potere dal 383 al 388, che non condannasse a morte alcuni eretici della parte dei Priscilliani. Senza paura del sovrano il santo prelato manteneva a corte la stessa attitudine nobile e sicura che gli donava la sua santità. Egli non temeva di mostrare la preminenza della dignità episcopale su quella temporale e provocò una tale ammirazione da parte dell’imperatrice che questa insistette un giorno per servirlo a tavola come umile serva. Nelle campagne vicine ai paesi pagani come a corte, nella solitudine del suo monastero, come nel suo vescovado, san martino mostrava dappertutto una umiltà e una carità esemplari, perseverando per tutta la sua vita nel digiuno e nella veglia, << lo slancio della sua anima era sempre rivolto al cielo >>.<< Giammai Martino lasciò passare un’ora, un momento senza dedicarsi alla preghiera o assorbito nella lettura o ancora leggendo o facendo altre cose, giammai cessando di pregare Dio. Mai nessuno vide Martino irritarsi, né commuoversi, né affliggersi né ridere. Sempre uguale, sempre lo stesso, il viso risplendente di una gioia celeste, sembrava al di sopra ella natura umana, niente se non amore, pace e misericordia >> [2].
Ma come Cristo e tutti i Suoi fedeli discepoli, il santo dovette subire delle prove da parte di alcuni colleghi nell’episcopato, gelosi della sua fama e dei suoi lavori presso grandi come presso il popolo. Anche da parte di alcuni a lui più vicini, Martino affrontò calunnie, disprezzo, ingiuste accuse, ma senza mai allontanarsi dalla sua serenità e dalla sua carità. Essendo andato un giorno nelle sue parrocchie rurali per riconciliare il clero di questa chiesa, malgrado i suoi sessantuno anni, il santo cadde malato. Egli riunì allora i suoi discepoli ed annunciò loro la sua morte prossima ma poiché costoro si lamentavano e lo supplicavano di non lasciarli orfani, Martino rispose loro rivolgendosi verso il Signore:<< Signore, se io sono necessario alla tua Chiesa, io non rifiuto di soffrire, che sia fatta la Tua volontà! >>. Rifiutando ogni conforto, perseverò fino alla fine nella preghiera allungato su un letto di cenere, coperto da un cilicio, diceva:<< Non conviene che un cristiano muoia diversamente che sulla cenere ed io, se vi lascio un altro esempio, avrò peccato >>. Poiché il diavolo gli apparve per tentarlo un’ultima volta, il santo lo cacciò dicendo:<< Tu non troverai niente in me che ti appartiene, maledetto, è il seno di Abramo che sta per ricevermi >>. Pronunciando queste parole, rese la sua anima a Dio. Il suo viso si illuminò allora come quello di un Angelo. << Così era l’aspetto di Martino che sembrava mostrarsi nella gloria della Resurrezione futura, con una carne nuova >> [3] .
Deceduto l’8 novembre 397, il santo vescovo fu trasferito a Tours, ed i suoi funerali ebbero luogo l’11 novembre in presenza di una moltitudine incredibile di fedeli accorsi dalle città e dalle campagne dei dintorni. San Martino fu il primo confessore (non martire) oggetto di culto pubblico in Occidente. Le sue reliquie attirarono per numerosi secoli folle di pellegrini, ed è considerato il santo protettore della Francia.
Note:
1) È commemorato il 12 novembre nei sinassari greci e il 12 ottobre nei documenti slavi; ma in Occidente la sua festa è tradizionalmente fissata l’11 novembre, giorno dei suoi funerali
2) Supplicio Severo Vita di San Martino 29
3) Supplicio Severo Lettera a Bassulla (III).