- Memoria dei Ss. martiri Minà dalla bella voce, Ermogene ed Eugenio
da: http://www.calendariobizantino.it/
San Menà era un ateniese di nascita, un uomo colto, eloquente, e di alto rango. San Eugrafo era il suo scrivano. Entrambi provenivano da famiglie cristiane tali da diverse generazioni. Ermogene che ricoprì la carica di Eparca era nato nel paganesimo e si convertì alla fede cristiana a causa dei miracoli compiuti da san Menà. Questi tre santi martiri subirono insieme il martirio ad Alessandria sotto Massimino circa 235.
- Memoria del nostro padre tra i santi, Luca il Grammatico, che molto lottò per la Fede ortodossa e la Nazione dei Romani
Archimandrita Antonio Scordino
Tra tutte le Vite di santi ortodossi d’Italia, quella di Luca il Grammatico ha subito le più devastanti manipolazioni, che hanno finito con il travolgere (e stravolgere) la stessa personalità storica del santo. La Vita inizia affermando che “è giusto esporre con chiarezza le vite dei padri, e incidere nei nostri cuori induriti le lotte che hanno affrontato per volere di Dio”, e continua con quanto ora sunteggio fedelmente, chiedendo scusa se costretto a fare molte note. I nostri santi padri sono stati agricoltori, perché hanno seminato il seme della verità e sradicato le spine impure, hanno piantato dogmi divini e arato con la fede. Sono stati soldati, perché hanno sconfitto il nemico e trionfato sul suo esercito, mutando in salvezza la nostra sconfitta. Sono stati pastori, perché hanno guidato il gregge e hanno scacciato gli eretici lupi. Sono stati piloti, perché hanno governato la Chiesa con la professione della fede e l’hanno ancorata sulla pietra che è Cristo. In Calabria c’è un paese, chiamato Melicuccà, dalle parti delle Saline. Qui fiorì il beato Luca: suo padre era Ursino e la madre Maria, ortodossi di splendida vita; sin da ragazzo si preparò ad abbracciare la vita monastica, così apprese la Preghiera continua. Preceduto dalla grande fama della sua virtù, è innalzato all’eccelso grado del sacerdozio; ascese quindi alla grande carica di sommo pontefice. Egli era misericordioso, compassionevole, ospitale; praticava l’esicasmo ma era sempre disponibile: il popolo che a lui accorreva, veniva beneficato e ciascuno tornava alle proprie case rendendo grazie a Dio. A tutti diceva di strappare dall’anima la zizzania con il digiuno e con la spada della Preghiera continua. Bisognava vederlo come viaggiava per insegnare nelle città e nei paesi: soprattutto nella festa del nostro santo padre Elia lo Speleota, a causa della moltitudine di popolo che si riuniva a Melicuccà, predicava, ammoniva, insegnava. Veramente il pastore pascolava il gregge in Cristo Gesù nostro Signore. Non privò la Sicilia del suo insegnamento: percorse quella terra pericolosa a causa degli atei nemici [i Normanni] che vi si erano insediati, non fece caso alle loro parole e in tutta l’Isola annunciò la salvatrice parola di Dio, fermandosi nelle città per ordinare sacerdoti. Poi partì, volendo rifugiarsi nella Capitale, ma giunto a Taranto, fu costretto a tornare in Calabria. E andava ovunque e in ogni città: proprio questo fu lo scopo della sua vita. Una volta, mentre andava verso il nord della Calabria, giunse sulla spiaggia del Medimo [la foce del Mèsima] e vide alcuni pescatori che lavavano le reti. Per otto giorni avevano faticato ma non avevano preso niente, ed essi gli riferiscono come non avevano avuto fortuna. Il compassionevole disse: “Gettate le reti dalla parte destra della barca e troverete”. Sulla sua parola, calarono le reti e presero pesci in abbondanza. La mucca di un tale aveva partorito in un campo e aveva contaminato il grano. Il contadino uccise il vitello, e il padrone della mucca ne chiese ragione: “Perché hai ucciso il vitello? Rendimelo e ti pagherò il grano”. Negando e spergiurando, quello disse: “Non ho visto niente, io non c’ero”. Vedendosi beffato, l’altro va dal santo per lamentarsi. L’avvocato dei buoni disse al contadino: “Dimmi se l’hai fatto apposta o per sbaglio”. Ma quello rispose: “Niente so, io non c’ero, non mi seccare, padre”. E il nostro gli disse: “Poiché non riconosci la colpa e sei sfrontato, ti si secchi la mano”. All’istante quello si trovò con la mano paralizzata. C’era un uomo di Bovalino che da anni non poteva urinare oppure urinava poco con molto dolore e fatica. Avvenne che il nostro venerabile Luca si fermò in quella città e tutto il popolo accorse a lui. Accorse pure quell’uomo, e si gettò ai piedi del santo piangendo. Il santo, commosso dalle sue lacrime, volse gli occhi al cielo, pregò e subito quello fu guarito. Nella stessa città, un tale si presentò raccontando cosa faceva il diavolo in casa sua. Il santo prese una carta e vi tracciò il segno della croce, vi scrisse i nomi dei quattro evangelisti, e la diede a quell’uomo, dicendogli di metterla in mezzo alla casa. Da quel momento il demonio non poté più annidarsi in quella casa. Da due anni un lupo [un barone normanno] straziava la gente di Squillace e tutta la zona era afflitta per la ferocia di quella bestia. Si rifugiano allora dal nostro padre, supplicandolo e pregandolo di liberarli da quella piaga. Egli, vero pastore che custodisce il gregge del Signore, li liberò da quella orribile belva. Ordinò loro il digiuno, li infervorò per tre giorni, e il mattino successivo li riunì tutti e si diresse verso la cattedrale. In quella stessa ora l’animale uscì e si mise a seguire una bambina. Entrata in casa la bambina, le andò dietro; subito la porta si chiuse da sola e la bambina si rifugiò nella stanza più interna, protetta dalla Grazia divina. Allora alcuni arrivarono di corsa e uccisero la bestia. La siccità dominava nella terra dei Mesi [pianoro sopra Villa San Giovanni]. Tutti insieme andarono a raccontare la disgrazia, ed egli – con gli occhi dell’anima immersi nella visione di Dio – rispose: “Preparatevi e domani mattina faremo una Litì sino alla chiesa della Madre di Dio al Faro” (tra il Petrace e il Mesima). Senza discutere si prepararono a partire. E il santo disse: “Non vedete quanta pioggia c’è?” e con la mano indicava il cielo. Ma loro dicevano al santo: “Ma dove vedi la pioggia?” Pensavano infatti che egli vedesse con gli occhi materiali e non con quelli spirituali. L’indomani uscì con tutto il popolo in processione verso la chiesa della Theotokos del Faro. Lì giunto, celebrò la divina Liturgia e alla fine disse: “Mangiate subito l’antidoron e tornate di corsa al paese; la voce di molta acqua è giunta al mio orecchio”. Chi aveva creduto, riuscì a evitare la pioggia, ma quelli che con stupida razionalità avevano creduto al cielo sgombro di nuvole, sulla strada dovettero affrontare grandi pericoli a causa della violenza dell’acqua e dei ruscelli che erano diventati torrenti. C’era un musicista che aveva una figlia a cui diede marito. Questi si stabilì nel paese dei Mesi. Un giorno il suocero gli disse: “Figlio, andiamo a riverire il vescovo”. San Luca li accolse con gioia: “Questo è il tale di cui ti ho parlato molte volte, il marito di mia figlia” – disse il suocero. “E’ buono, ma non può avere figli. Sono passati sette anni da quando si sono messi insieme secondo le sante leggi. Potessi avere un erede!” Il santo padre disse al giovanotto: “Non preoccuparti, il Signore non ti lascerà senza figli” … [qualcuno ha strappato almeno un foglio, che conteneva qualche episodio anti-latino. Il testo infatti continua:] … tra gli empi. Una volta ci fu una discussione con i Latini, sull’uso del pane fermentato oppure azzimo. Il santo li subissò con una infinita quantità di prove tratte dalla Scrittura, e concluse: “Voialtri, ipocriti farisei, celebrate come i Giudei, senza lievito; battezzate in qualsiasi giorno e credete un incredibile numero di eresie perché non pensate con ortodossia”. Così parlando, li spinse alla rabbia estrema: fecero una capanna e lo trascinarono dentro per bruciarlo vivo; diedero fuoco ai quattro angoli della capanna. Il fuoco divorò tutto ma non toccò neppure un pelo del santo: egli apparve in mezzo alle fiamme in preghiera, illeso e incolume. Gettò gli eretici nella vergogna e nel timore, incitò gli ortodossi a dare gloria. Una divina rivelazione gli fece sapere che il giorno della sua partenza era alle porte. In fretta raggiunse il monastero del monte Viotirito (Solano di Bagnara, RC) e chiamò i vescovi della zona [clandestini], gli igumeni e i rappresentanti del clero. Dice: “Figli e fratelli miei, ora torno a Dio, è giunta l’ora della mia liberazione. Tenetevi saldi nella fede ortodossa”. Queste cose e molte altre simili insegnò ai fratelli e ai discepoli, e li benedisse. Si distese dentro la chiesa del nostro venerabile padre Nicola, che aveva costruito sul predetto monte Viteorito, e rese l’anima beata, mattina di giovedì 10 dicembre 1114. Proprio in quel momento, come ci hanno detto alcuni degni di fede che hanno visto, apparve un bastone vescovile, come di fuoco, che scendeva dal cielo e splendeva sino alla porta della chiesa dove era deposto, presagio delle Energie divine che si sarebbero manifestate in quel luogo, come ci dimostrarono e confermarono i miracoli. Un mare di sacerdoti e una folla immensa ci fu al funerale: molti afflitti da varie malattie, al solo toccare la sua salma prodigiosa, in un attimo furono guariti. Alcuni fatti, ve lo giuro, li ho visti con i miei occhi. Nicola, un sacerdote di Seminara malato di idropisia, fu portato con una barella. Appena baciato il cadavere incorrotto, guarì e tornò a casa con i suoi piedi. C’era una coppia di Casiano [Casignana, nella Locride?]: il diavolo penetrò nell’uomo. Sconvolto dal maligno, si rifugiò nel Monastero detto Vatino (probabilmente, Polsi). Lì fu tonsurato e fatto monaco. Dopo qualche tempo andò al suo paese insieme all’igumeno e appena i suoi conoscenti lo videro, dicono alla sua ex moglie che il suo uomo era guarito. Lei si alzò e appena la vide il demonio che era uscito dal marito, entrò in lei. Alzò allora le mani al cielo: “Dio, per le preghiere di Luca, liberami dal demonio!” Il demonio la getta a terra, e subito si manifesta il venerando Luca che le dice: “Raggiungi in fretta il Viotirito e riceverai la guarigione totale”. Quella raggiunse il monastero in cui riposa il corpo di san Luca, si getta a terra e ringrazia Dio, dicendo: “Gloria a te, santo di Dio! Sei venuto, sei stato presente e sono stata liberata dal demonio!” Le tagliarono i capelli del capo e prese il santo abito. Un sacerdote del Monastero di Plakas (Placanica? Plakas di Taormina?) aveva il corpo così gonfio che non poteva essere toccato o sfiorato. Venne alla tomba del santo, chiedendo di essere guarito. Fu sopraffatto dal sonno, e vede se stesso morto e sepolto vicino al cadavere del santo. In sogno il santo gli dice: “Vuoi che ti faccia risuscitare?” E quello: “Per questo sono venuto!” E san Luca: “Nel nome del Padre e del Figlio e del Santo Spirito, risuscita!” E lo prese per mano, lo fece alzare e gli disse di andare nel vicino monastero della Theotokos, dove era stato una volta. Si svegliò e vide che era completamente guarito. Il santo, quando ancora era in vita, aveva scongiurato un latino di Briatico di non perseguitare i sacerdoti ortodossi, ma quello non voleva ascoltare. Gli venne un accidente: si ricordò dei rimproveri del santo e di corsa si rifugiò allora presso la tomba del santo, promettendo e firmando che da quel momento i nostri sacerdoti sarebbero stati tranquilli. Questo giurando e molto di più promettendo, il nostro Dio lo guarì ma quello, poco dopo, dimenticati i giuramenti, con più grande violenza perseguita gli ortodossi. Un male peggiore del primo lo afferrò e giacque abbandonato dall’aiuto di Dio e del santo. Cristodulo, che era paralizzato, fu portato a spalle sino alla tomba di san Luca: dopo otto giorni si alzò e camminò glorificando Dio. Il signore del paese dei Galliani (?) mandò al sepolcro del santo una paralitica. La donna, appena fu vicina alla tomba del santo, si alzò dalla barella e camminò. Tornata al paese, quel signore non credeva. Non tanto perché era un ateo franco: perché voleva metterla alla prova. Ordinò infatti che salisse sino a Petra [?]; quella chiese l’aiuto del santo e salì sin sulla cima della montagna. Un ragazzo di Taormina era storpio dalla nascita. Suo padre lo portò con una carriola e lo scaricò davanti alla tomba del santo. Lì restò a lungo, tornò … [qualcuno ha strappato gli ultimi fogli] Dai manoscritti liturgici – salvatisi nella Biblioteca Regionale di Messina – risulta che le reliquie di Luca erano deposte e venerate a Solano, un pianoro sopra Bagnara Calabra, dove pare sorgesse il monastero che probabilmente fu la ‘sede vescovile’ di Luca, negli anni in cui si compiva l’olocausto della Nazione romano-ortodossa. Forse si tratta di quel Monastero di San Luca del bosco che appare in alcuni (apocrifi) Diplomi normanni come incamerato dai frati latini di Bagnara Calabra. E’ probabile che quando questi si impossessarono del Monastero (attribuendone, al solito, la donazione al re Ruggero) o dopo la Guerra del Vespro, ghettizzati sempre più gli ortodossi dell’attuale provincia di Reggio, le reliquie di san Luca siano state traslate a Bova, il Campo di concentramento in cui era stata ridotta la grecità nella Sicilia continentale. La traslazione avvenne un 5 ottobre (come si legge in alcuni inni liturgici) e nacque così facilmente l’idea di un Luca vescovo di Bova, omonimo e contemporaneo ma distinto da Luca il Grammatico. Tale ingenua credenza è stata avallata da certi eruditi moderni i quali, però, sono costretti a fare ricorso agli stessi documenti (peraltro falsi, come una pseudo ‘donazione’ normanna) per datare ora uno, ora l’altro dei Luca. Gli stessi eruditi attribuiscono al fantomatico Luca di Bova alcuni scritti (che in realtà sono omelie), senza però avvertire lo sprovveduto lettore che la firma – per così dire – non è stata di certo apposta dal santo e nel 12° secolo, ma nel 17° secolo e dal gesuita Jacques Sirmond che ne fece una copia per i gesuiti belgi detti Bollandisti (al solito: il manoscritto originale è sparito). D’accordo che la storia dei vinti la debbano scrivere i vincitori; solo che qualche volta esagerano: è proprio il caso della Vita di san Luca il Grammatico, pubblicata con interventi scandalosamente indecenti. Per fare qualche esempio: Luca è stato considerato vescovo di Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone, anche se i toponimi indicano in genere località montuose presso Reggio, mentre il Crotonese è una piattissima pianura; il Monastero detto Vatino è diventato un Santuario della Madonna della Catena; e così via falsificando. La prima omelia trascritta dal gesuita J. Sirmond (edita poi dal chierico uniate P. Joannou) è stata pronunciata all’inizio della Grande Quaresima, per esortare al digiuno; il testo conserva anche una solenne celebrazione di penitenza per il primo venerdì. La seconda omelia parla dell’atteggiamento interiore ed esteriore che deve avere chi partecipa alla Divina Liturgia e soprattutto chi si accosta a ricevere i Santi Doni: alla comunione è dedicata in particolare la terza omelia. La quarta omelia fu pronunciata in occasione d’un funerale e affronta il tema della morte cristiana e della risurrezione. Si tratta dunque di testi pronunciati ‘a braccio’ (e ne hanno tutti i limiti), trascritti e ricopiati chissà quante volte prima del diciassettesimo secolo, quando giunsero in mano ai gesuiti belgi. Il dossier, tra l’altro, è incompleto: come qualcuno si preoccupò di mutilare la Vita di san Luca, così le omelie si interrompono improvvisamente. Solo il quinto documento sembrerebbe ‘scritto’ dal vescovo Luca, trattandosi di una esortazione come testamento. Luca rivolge il suo pensiero grato soprattutto agli abitanti di Sant’Agata [Oppido], Nicotera, San Niceto [?] e Reggio; ricorda con parole di circostanza la giovinezza e il tempo della professione monastica; lamenta d’essere conosciuto come Grammatico, come un letterato, mentre egli si sente solo un servitore degli ortodossi di Calabria e Sicilia, che per quarantacinque anni si è logorato per rianimare la Nazione romano-ortodossa sconvolta dagli atei Normanni. Nel testo prodotto nel 17° secolo dal gesuita J. Sirmond, Luca ringrazia fugacemente un certo Rao e un certo Rokeri: arrampicandosi sugli specchi, alcuni eruditi hanno identificato il Rao con Rodolfo e il Rokeri con Ruggero, e hanno ipotizzato che entrambi fossero presuli latini di Reggio. Anche se la logica insegna che non si può desumere una certezza da una ipotesi (o che due bugie non fanno una verità), alcuni eruditi ne hanno dedotto l’esistenza di un vescovo Luca di Bova molto ‘ecumenista’ (sol perché menziona quei due) e perciò da distinguere (anche se omonimo, contemporaneo e impegnato nello stesso territorio) dal vescovo Luca anti-latino. Però tra i presuli latini di Reggio non figura alcun Rodolfo o Ruggero: il primo vescovo latino di Reggio è infatti un certo Arnoul, poi c’è un William, un Anger, un H. [Henri?], poi ancora un William… bisogna arrivare agli anni 1154\70 per trovare un nome Roger che somigli a Rokeri e al 1234\51 per trovare un R. che, con molta buona volontà, potrebbe essere Rao [Raulf?]. Noi non sappiamo cosa abbia letto e trascritto il gesuita Sirmond; sappiamo però che nessuno di quei presuli mise mai piede a Reggio, ed è perciò assurdo pensare che abbiano potuto intrattenere amichevoli, affettuosi rapporti con il vescovo Luca: tra l’altro, le cronotassi o Liste episcopali messe insieme nel 17° secolo da F. Ughelli sono prive d’un qualche rigore e valore scientifico, anche se supinamente accettate da eruditi moderni quali C. Eubel. Proprio nel caso che ora ci interessa, l’Ughelli (un frate latino dell’Ordine dei Cistercensi) riuscì a confondere Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone, con Asolo, località tra Bassano del Grappa e Montebelluna.