Iniziale » Sinassario | 20 ottobre 2023

Sinassario | 20 ottobre 2023

Ott 19, 2023 | Sinassario

  • 10: Memoria del nostro santo Padre teoforo GERASIMO il NUOVO

a cura della Chiesa Greco-Ortodossa di San Paolo Apostolo dei Greci, Reggio di Calabria

Il nostro santo Padre Gerasimo era originario del Peloponneso ed i suoi genitori lo consacrarono fin dalla giovane età agli studi delle sante Letture, nelle quali mostrò una brillante intelligenza. Fatto adulto, lasciò la sua patria per andare nell’isola di Zante e da lì attraversò tutta la Grecia. Dalla Tessaglia si diresse verso il Mar Nero, Costantinopoli, la Propontide e Calcedonia. Dovunque andasse, cercava degli uomini che fossero perfetti nella vita ascetica e che potessero insegnargli l’ << Arte delle arti e le scienze delle scienze >>. Come un’ape diligente, arrivò in fine al Monte Athos, dove succhiò i fiori variegati delle virtù che osservava presso un gran numero di asceti, al fine di produrre in lui il miele della purezza del cuore. Il santo restò un lungo periodo di tempo alla scuola dei servitori della Madre i Dio sull’Athos. Qui ricevette il grande abito angelico e praticò con ardore tutte le virtù della vita monastica: il digiuno continuo, le veglie di tutta la notte, le lacrime, l’elevazione dell’intelligenza tesa verso Dio nella quiete assoluta e la purezza del cuore. Dopo qualche anno, partì per venerare i Luoghi Santi ed a Gerusalemme fu ordinato successivamente sotto-diacono, diacono e poi prete dal patriarca Germano. Dopo aver servito un anno al Santo Sepolcro, restò per dodici anni al servizio del patriarca. Non meno continuò i suoi combattimenti ascetici. Una volta, andò al deserto del Giordano e vi passò quaranta giorni nel digiuno e la preghiera, a imitazione del Signore, poi ritornò al patriarcato per proseguire il suo servizio.

Egli lasciò in seguito Gerusalemme per proseguire i suoi pellegrinaggi. Visse un periodo al Sinai, poi partì per Alessandria, percorse tutto l’Egitto, arrivò ad Antiochia, a Damasco, da là andò a Creta e ritornò infine a Zante. Egli si installò in una grotta lontano da tutti, dove trascorse cinque anni nutrendosi solo di qualche legume, senza pane né sale. Nonostante ben nascosto, non tardò ad essere scoperto da pii fedeli, che accorsero ben presto numerosi per ricevere le benedizioni ed i consigli del santo. Ma costui, avvertito dalla voce dei santi Padri che nulla è più pericoloso per il monaco che le lodi e la buona reputazione, decise di partire ancora una volta. Egli si installò allora in una piccola grotta situata nell’isola di Cefalonia, dove restò circa sei anni. Ma poiché è impossibile ad una lampada accesa di restare nascosta, anche là la virtù del santo fu scoperta ed i fedeli non lo lasciarono gioire della conversione solitaria con Dio. La Providenza lo condusse verso un luogo dell’isola chiamato Omala, dove si trovava una piccola chiesa e una icona miracolosa. Egli ricevette allora da Dio la garanzia che era tempo per lui di accettare dei discepoli. Venticinque giovani donne andarono a chiedergli di prenderle sotto la sua direzione spirituale e di trasformare la piccola chiesa in monastero. Egli accettò così di sacrificarsi e di comunicare la grazia e l’esperienza spirituale che Dio gli aveva accordato in abbondanza. Il monastero fu chiamato la Nuova Gerusalemme e sembrava abitato da angeli che avevano un corpo. Avendo raggiunto un’età avanzata, il santo predisse il giorno della sua morte e riunì tutte le figlie spirituali per comunicare loro le sue ultime istruzioni. Poi, avendole benedette, rimise con gioia e grande pace la sua anima tra le mani del suo Signore e Dio. Morì il 15 agosto 1579. Poiché questa data coincide con la Dormizione della Madre di Dio, celebriamo la sua memoria il 20 ottobre, giorno del trasferimento delle sue reliquie che dimorano fino ad oggi incorrotte ed emanano un odore celeste compiendo un gran numero di miracoli.

  • Memoria del santo grande martire ARTEMIO

a cura della Chiesa Greco-Ortodossa di San Paolo Apostolo dei Greci, Reggio di Calabria

Il santo e glorioso martire di Cristo Artemio visse sotto il regno di Costantino il Grande. Di nobile famiglia, godeva dei favori dell’imperatore e ricevette la dignità di Patrizio e di duca augustale (governatore militare) di Alessandria e di tutto l’Egitto (330). Ma questi onori non gli fecero perdere la sua fede e la voglia di spandere dappertutto intorno a lui la dottrina della Salvezza. Alla morte di Costantino (337), l’impero fu diviso tra i suoi tre figli. Costanzo, che ereditò tutta la parte orientale dell’impero (dall’Illiria alla Persia, la Palestina e l’Egitto), si installò a Costantinopoli. Avendo appreso che le reliquie dell’Apostolo Andrea si trovavano a Patrasso (Peloponneso) e quelle di san Luca a Tebe (Beozia), affidò a san Artemio il compito di trasferirle nella città imperiale e di depositarle nella chiesa dei Santi Apostoli.

Qualche tempo più tardi, Costanzo dovette andare ad Antiochia con la sua armata, per combattere contro i Persiani. Approfittando di questo allontanamento, suo cugino Giuliano si impadronì dell’impero d’Occidente (che Costanzo aveva annesso nel 351) e volle farsi proclamare imperatore al suo posto. Costanzo si mise subito in rotta per ristabilire la situazione, ma morì sul cammino, in Cilicia, avendo solo il tempo di ricevere il battesimo. Giuliano divenne allora il solo imperatore (360) e iniziò subito a restaurare gli antichi culti pagani di cui credeva essere stato divinamente istituito nuovo profeta. Egli inviò dappertutto degli editti che ordinavano la restituzione al culto degli idoli dei templi che erano stati trasformati in chiese sotto Costantino. Egli interdì ai maestri e retori cristiani di insegnare liberamente. Fece aspergere di acqua lustrale i mercati, al fine di impaurire gli abitanti e costringerli a mangiare solo gli alimenti che erano stati in qualche modo consacrati agli idoli. Ed in più luoghi dell’impero si videro di nuovo fiorire le palme del martirio. Giuliano l’Apostata si installò ad Antiochia, al fine di poter continuare la guerra contro i Persiani e chiese a tutti i governatori delle provincie di venire a raggiungerlo con le loro truppe. L’ordine arrivò ad Artemio che, fedele alle autorità secondo le raccomandazioni della Scrittura (Rom. 13,1-2), levò la sua armata e partì da Alessandria per Antiochia. Dopo un lungo viaggio, arrivarono nella città, dove fu pronunciato per la prima volta il nome di << cristiani >> (Atti 11,26) al momento in cui l’imperatore faceva comparire avanti a lui due preti, Eugenio e Macario, per costringerli a rinnegare la loro fede e sottomettersi al culto insensato degli dei dell’imperatore. Costoro risposero coraggiosamente a tutti gli argomenti di Giuliano proclamando la divina dottrina della Redenzione. A corto di argomenti, diede l’ordine d’infliggere loro cinquecento colpi di bastone. Rivoltato da questo spettacolo, Artemio avanzò verso l’imperatore e dichiarò che tutte questa macchinazioni che intraprendeva contro i cristiani sotto la suggestione del Demonio erano inutili perché, per la Croce di Cristo, la potenza orgogliosa dei demoni era stata vinta e che gli dei che adorava sotto il nome di Hermes o di Apollo altra realtà non avevano se non quella del legno o del metallo fuso delle loro statue inanimate. La sorpresa dell’imperatore si trasformò in furore quando apprese che colui che si rivolgeva così a lui era Artemio, duca d’Egitto, che egli supponeva essere stato l’istigatore della morte di suo fratello Gaio Costantino, Cesare per l’Oriente, il qual era stato assassinato sotto gli ordini dell’imperatore Costanzo. Egli ordinò dunque che si afferrasse il corpo d’Artemio, che gli si strappassero le insegne delle cariche e che comparisse avanti a lui l’indomani perché la sua audacia fosse punita. Egli fu dunque legato, coperto di colpi e gettato, mezzo morto, in prigione con i due altri martiri. Pieno di gioia, Artemio elevò la sua preghiera verso Dio dicendo: << Io ti ringrazio, Signore, di avermi reso degno di essere messo alla tortura per il tuo amore e di essere contato tra i cori dei santi >>.

L’indomani, si inviò i due martiri, Eugenio e Macario, in esilio verso le regioni ostili d’Arabia dove ebbero la testa tagliata qualche tempo più tardi (il 20 dicembre[1]). L’imperatore fece condurre Artemio avanti a lui e gli promise tutti gli onori dei familiari del sovrano e anche la carica di gran sacerdote dei suoi dei, se accettava di abbandonare la forte fede di coloro che egli chiamava << i Galilei >>. Non sortendo tali proposte alcun effetto sul santo che, con Cristo, era già morto al mondo e alle sue illusioni, gli sembrò egualmente inutile fare una lunga apologia del Cristianesimo avanti all’imperatore che aveva ricevuto nella sua giovinezza l’educazione cristiana. Egli tentò solo discolparsi dalle accuse menzognere sul suo ruolo nella morte di Gaio e di affermare all’Apostata che niente al mondo avrebbe potuto fargli abbandonare la roccia della fede. Per cui non restò altro al despota impotente che esprimere la sua rabbia attraverso la tortura. Egli fece bucare il corpo del santo con ferri arroventati al fuoco a suo grande dispetto, né un solo grido o gemito uscirono dalla bocca d’Artemio. Venuta la sera, il Cristo gli apparve nella sua prigione e lo guarì miracolosamente dalle ferite. Riconfortato da questa visione, Artemio passò quindici giorni senza mangiare né bere, in piedi, occupato giorno e notte alla preghiera e alla contemplazione dei misteri celesti.

Durante questo tempo, Giuliano era andato a Dafni, nei dintorni d’Antiochia, dove aveva fatto trasferire le reliquie di san Babila (cf. 4 settembre) in un cimitero della città, al fine di costruire nel luogo della sua sepoltura una statua d’oro di Apollo e un tempio consacrato al suo culto. Ma una notte, allorché i sacerdoti erano indaffarati in un sacrificio e preghiere perché la divinità li reputasse degni, aprendo la sua bocca di legno e metallo, di dare un oracolo, un fuoco discese dal cielo e distrusse interamente il tempio e la statua senza che nessuno potesse spegnerlo. Gettando la responsabilità sui cristiani, Giuliano fece allora accentuare le sue persecuzioni in tutto l’impero. Vennero chiuse nuovamente le chiese. A Samaria (Sebaste) fece gettare al fuoco le reliquie dei profeti Eliseo e Giovanni Battista. Nella città di Cesarea di Filippi, fece distruggere la statua di Cristo che era stata confezionata dall’Emorroissa[2]. Egli diede l’ordine di lasciare i Giudei ricostruire il loro tempio a Gerusalemme (il quale era stato distrutto nel 70) con l’aiuto di fondi dello stato, al fine di manifestare l’inganno dei profeti del Cristo circa la fine del culto dell’Antica Legge. Dappertutto i cristiani vennero perseguitati e fu allora che Giuliano fece uscire Artemio di prigione per finirlo. Egli fece tagliare in due un grosso masso che si trovava presso il teatro, fece stendere il santo su una delle metà e ordinò che si facesse rotolare sul suo corpo l’altra metà. Quando la pietra cadde, tutti poterono udire il rumore delle ossa che si spezzavano. Venne lasciato così fino all’indomani, pensando che avesse reso l’anima. Ma quale non fu lo stupore del tiranno, quando sollevò la pietra e vide quest’uomo, le cui ossa erano state spezzate, gli intestini sparsi e terra e gli occhi cavati, continuare a ridere i falsi dei e gloriarsi nella Croce del Signore. Lontano dal convertirsi alla vista di questo prodigio, Giuliano ordinò di finirlo e di decapitarlo. Il martire ascoltò con gioia questa sentenza ed elevò le sue mani al cielo per rendere grazie a Dio e pregare per la salvezza della Chiesa. Egli andò da solo nel luogo dell’esecuzione, si prostrò tre volte verso Oriente e offrì con gioia la sua nuca alla spada del carnefice. Una pia e nobile donna prese il corpo del martire e lo fece trasportare a Costantinopoli, dove, per secoli, fu venerato con fervore e compì innumerevoli guarigioni.

Note:

1) In una tradizione differente è riportata la loro commemorazione il 19 febbraio.

2) Cf. 12 luglio, memoria di santa Veronica.

  • Memoria della beata Matrona di Chios, taumaturga

La beata Matrona si chiamava originariamente Maria. Nacque nel villaggio di Volissòs nell’isola di Chios da genitori devoti e ricchi, Leone e Anna. Altre sei sorelle di Maria, più grandi di lei, si erano sposate una dopo l’altra, ricercate per la loro bellezza, la buona educazione e la cospicua dote. La più giovane si dedicò agli studi religiosi e si occupava con fervore di carità. Intendeva dunque seguire un’altra strada. Il suo contatto regolare con le anziane dei monasteri dell’isola, fece desiderare a Maria la purezza della vita monastica. L’amore per i suoi genitori la trattenne nella casa paterna, ma quando i genitori morirono, Maria ebbe un assaggio della vita solitaria accanto ad una pia vedova, che viveva una vita ascetica con le sue due figlie.

Dopo questa esperienza, decise di entrare nell’ordine monastico. Fu tonsurata e prese il nome di Matrona. La sua condotta nella piccola comunità era eccellente. Aveva un atteggiamento ispirato alla bontà, alla fratellanza, all’umiltà e alla cordialità: infatti, dal ricavato della vendita delle sue proprietà, nel monastero fu costruito un bellissimo tempio. Dopo qualche tempo, la donna presso la quale Matrona esercitava la sua ascesi monastica morì. Tutte le monache, allora, la scelsero come igumena, per quanto contro la sua stessa volontà. Sotto la sua direzione la comunità visse con moderazione, nell’obbedienza e nella pietà religiosa. L’anno della sua dormizione è considerato il 1462, ma alcune fonti attestano che la beata morì circa cento anni prima, perché la sua prima biografia fu scritta dal metropolita di Rodi Nilos (1357).

Share This