- Memoria di Sant’Ambrogio di Milano
Monastero Ortodosso di Santa Barbara – Montaner VV
Aurelio Ambrogio, meglio conosciuto come sant’Ambrogio (Treviri, incerto 339-340 – Milano, 397), vescovo, scrittore e uomo politico, fu una delle personalità più importanti nella Chiesa del IV secolo. È venerato come santo da tutte le Chiese cristiane che prevedono il culto dei santi; in particolare, la Chiesa cattolica lo annovera tra i quattro massimi Dottori della Chiesa, insieme a san Girolamo, sant’Agostino e san Gregorio I papa.
Conosciuto anche come Ambrogio di Milano, è patrono della città, della quale fu vescovo dal 374 fino alla sua morte e nella quale è presente la basilica a lui dedicata che ne conserva le spoglie.
Aurelio Ambrogio nacque nel 339-340, da una importante famiglia senatoria romana (la famiglia degli Aurelii, da parte materna, la famiglia dei Simmaci, da parte paterna), a Treviri (Gallia), dove il padre esercitava la carica di prefetto del pretorio delle Gallie.
La famiglia di Ambrogio era cristiana da alcune generazioni (egli stesso cita con orgoglio la sua parente Santa Sotere, martire cristiana che «ai consolati e alle prefetture dei parenti preferì la fede») ed egli era terzogenito dopo due fratelli, Marcellina (consacratasi a Dio nelle mani di papa Liberio nel 353) e Satiro, anch’essi venerati poi come santi.
Destinato alla carriera amministrativa sulle orme del padre, dopo la sua morte prematura frequentò le migliori scuole di Roma, dove compì i tradizionali studi del trivio e del quadrivio (imparò il greco e studiò diritto, letteratura e retorica), partecipando poi alla vita pubblica della città.
Incarichi pubblici e nomina a vescovo di Milano
Dopo cinque anni di avvocatura a Sirmio, nel 370 fu incaricato quale governatore della provincia romana dell’Emilia-Liguria, con sede a Milano, dove divenne una figura di rilievo nella corte dell’imperatore Valentiniano I. La sua abilità di funzionario nel dirimere pacificamente i forti contrasti tra ariani e cattolici gli valse un largo apprezzamento da parte delle due fazioni.
Nel 374, alla morte del vescovo ariano Aussenzio di Milano, la delicata situazione di contrasto tra le due fazioni sembrò precipitare. Il biografo Paolino racconta che Ambrogio, preoccupato di sedare il popolo in rivolta per la designazione del nuovo vescovo, si recò in chiesa dove all’improvviso si sarebbe sentita la voce di un bambino urlare «Ambrogio vescovo!», a cui si unì quella unanime della folla radunata nella chiesa. Ambrogio, nonostante fosse di fede cristiana, rifiutò decisamente l’incarico, sentendosi impreparato: come era in uso presso alcune famiglie cristiane all’epoca, egli non aveva ancora ricevuto il battesimo, né aveva affrontato studi di teologia.
Paolino racconta che, al fine di desistere il popolo di Milano dalla sua nomina a vescovo, Ambrogio provò anche a macchiare la buona fama che lo circondava, ordinando la tortura di alcuni imputati e invitando in casa sua alcune prostitute; ma, dal momento che il popolo non recedeva nella sua scelta, egli tentò addirittura la fuga. Quando venne ritrovato, il popolo decise di risolvere la questione appellandosi all’autorità dell’imperatore Flavio Valentiniano, cui Ambrogio era alle dipendenze. Fu allora che quest’ultimo accettò l’incarico, considerando che fosse questa la volontà di Dio nei suoi confronti, e decise di farsi battezzare secondo la fede cristiana: nel giro di sette giorni ricevette il battesimo e, il 7 dicembre 374, venne ordinato vescovo. Riferendosi alla sua elezione, egli scriverà poco prima della morte: « Quale resistenza opposi per non essere ordinato! Alla fine, poiché ero costretto, chiesi almeno che l’ordinazione fosse ritardata. Ma non valse sollevare eccezioni, prevalse la violenza fattami »
Nonostante, come scrisse più tardi, si sentisse «rapito a forza dai tribunali e dalle insegne dell’amministrazione al sacerdozio», dopo la nomina a vescovo Ambrogio prese molto sul serio il suo incarico e si dedicò ad approfonditi studi biblici e teologici.
Gli impegni pastorali
Quando divenne vescovo, adottò uno stile di vita ascetico, elargì i suoi beni ai poveri, donando i suoi possedimenti terrieri (eccetto il necessario per la sorella Marcellina).
Uomo di grande carità, tenne la sua porta sempre aperta, prodigandosi senza tregua per il bene dei cittadini affidati alle sue cure. Ad esempio, Sant’Ambrogio non esitò a spezzare i Vasi Sacri e ad usare il ricavo dalla vendita per il riscatto di prigionieri. Di fronte alle critiche mosse dagli ariani per il suo gesto, egli rispose che «è molto meglio per il Signore salvare delle anime che dell’oro. Egli infatti mandò gli apostoli senza oro e senza oro fondò le Chiese. […] I sacramenti non richiedono oro, né acquisisce valore per via dell’oro ciò che non si compra con l’oro» (De officiis, II, 28, 136-138)
La sua sapienza nella predicazione e il suo prestigio furono determinanti per la conversione nel 386 al cristianesimo di Sant’Agostino, di fede manichea, che era venuto a Milano per insegnare retorica.
Ambrogio fece costruire varie basiliche, di cui quattro ai lati della città, quasi a formare un quadrato protettivo, probabilmente pensando alla forma di una croce. Esse corrispondono alle attuali basiliche di San Nazaro (sul decumano, presso la Porta Romana, allora era la Basilica Apostolorum), di San Simpliciano (sulla parte opposta), di Sant’Ambrogio (collocata a sud-ovest, era chiamata originariamente Basilica Martyrum in quanto ospitava i corpi dei santi martiri Gervasio e Protasio rinvenuti da Ambrogio stesso; accoglie oggi le spoglie del santo) e di San Dionigi.
Il ritrovamento dei corpi dei santi martiri Gervasio e Protasio è narrato dallo stesso Ambrogio, che attribuisce il merito del ritrovo ad un presagio, per il quale egli fece scavare la terra davanti ai cancelli della basilica (oggi distrutta) dei santi Felice e Nabore. Al ritrovamento dei corpi seguì la loro traslazione (secondo un rito importato dalla chiesa orientale) nella Basilica Martyrum; durante la traslazione, si racconta (è lo stesso Ambrogio a riportarlo) che un cieco di nome Severo riacquistò la vista. Il ritrovamento del corpo dei martiri da parte del vescovo di Milano diede grande contributo alla causa degli ortodossi nei confronti degli ariani, che costituivano a Milano un gruppo nutrito e attivo e negavano la validità dell’operato di Ambrogio, di fede cattolica ortodossa.
Fu autore di diversi inni per la preghiera, compiendo fondamentali riforme nel culto e nel canto sacro, che per primo introdusse nella liturgia cristiana, e ancor oggi a Milano vi è una scuola che tramanda nei millenni questo antico canto di provenienza dal canto bizantino.
Politica ecclesiastica
L’importanza della sede occupata da Ambrogio, teatro di numerosi contrasti religiosi e politici, e la sua personale attitudine di uomo politico lo portarono a svolgere una forte attività di politica ecclesiastica. Egli scrisse infatti opere di morale e teologia in cui combatté a fondo gli errori dottrinali del suo tempo. Si mostrò in prima linea nella lotta all’arianesimo, che aveva trovato numerosi seguaci a Milano e nella corte imperiale. Si scontrò per questo motivo con l’imperatrice Giustina, di fede ariana e probabilmente influì sulla politica religiosa dell’imperatore Graziano che, nel 380, inasprì le sanzioni per gli eretici. Il momento di massima tensione si ebbe nel 385-386 quando, dopo la morte di Graziano, gli ariani chiesero insistentemente con l’appoggio della corte imperiale una basilica per praticare il loro culto. L’opposizione di Ambrogio fu energica tanto che rimase famoso l’episodio in cui, assieme ai fedeli di retta fede, “occupò” la basilica destinata agli ariani finché l’altra parte fu costretta a cedere. Fu in questa occasione, si racconta, che Ambrogio introdusse l’usanza di del canto antifonale e della preghiera cantata in forma di inno, con lo scopo di non fare addormentare i fedeli che occupavano la basilica. Fu inoltre determinante per la vittoria di Ambrogio nella controversia con gli ariani il ritrovamento dei corpi dei santi Gervasio e Protaso, che avvenne proprio nel 386 sotto la guida del vescovo di Milano, il quale guadagnò in questo modo il consenso di gran parte dei fedeli della città.
Fu infine forte avversario del paganesimo “ufficiale” romano, che dimostrava in quegli anni gli ultimi segni di vitalità; per questo motivo si scontrò con il senatore Simmaco che chiedeva il ripristino dell’altare e della statua della dea Vittoria rimossi dalla Curia romana, sede del Senato, in seguito a un editto di Graziano nel 382.
Rapporti con la corte imperiale
Il potere politico e quello religioso al tempo erano strettamente legati: in particolare l’imperatore, a cominciare da Costantino, possedeva una certa autorità all’interno della Chiesa. A questo si aggiunsero la posizione di Ambrogio, vescovo della città di residenza della corte imperiale, e la sua precedente carriera come avvocato, amministratore e politico, che lo portarono intervenire più volte in primo piano nelle vicende politiche, ad avere stretti rapporti con gli ambienti della corte e dell’aristocrazia romana, e talvolta a ricoprire specifici incarichi diplomatici per conto degli imperatori.
In particolare, nonostante il convinto lealismo verso l’impero Romano e l’influenza importante nella vita politica dell’impero, i suoi rapporti con le istituzioni non furono sempre pacifici, soprattutto quando si trattò di difendere la causa della Chiesa e dell’ortodossia religiosa. Gli storici bizantini gli accreditarono questo atteggiamento come parrhesia (παρρησία), schiettezza e verità di fronte ai potenti e al potere politico, che traspare a partire dal suo rapporto epistolare con l’imperatore Teodosio.
Essendo Ambrogio precettore dell’imperatore Graziano, lo educò secondo i principi del Cristianesimo. Egli predicava all’imperatore di rendere grazie a Dio per le vittorie dell’esercito, e lo appoggiò nella disputa contro il senatore Simmaco, che chiedeva il ripristino dell’altare alla dea Vittoria rimossi dalla Curia romana.
Chiese poi a Graziano di indire un concilio (che si tenne ad Aquileia nel settembre del 381) per condannare due vescovi eretici, secondo i dettami dei vari concili ecumenici ed anche secondo l’opinione del vescovo di Roma e dei vescovi ortodossi. In questo concilio Ambrogio si pronunciò contro l’arianesimo.
Importante la dura presa di posizione di Ambrogio che con Cromazio di Aquileia assunse per far liberare San Giovanni Crisostomo dall’esilio impostogli dall’Imperatore.
Ambrogio influì anche sulla politica religiosa di Teodosio I. Nel 380, con l’editto di Tessalonica, il cristianesimo fu proclamato religione di stato.
Nel 390 richiamò severamente l’imperatore, che aveva ordinato un massacro tra la popolazione di Tessalonica, rea di aver linciato il capo del presidio romano della città: in tre ore di carneficina erano state assassinate migliaia di persone, attirate nell’arena con il pretesto di una corsa di cavalli. Ambrogio, venuto a conoscenza dell’accaduto, evitò una contrapposizione aperta con il potere imperiale (con il pretesto di una malattia evitò l’incontro pubblico con Teodosio) ma, per via epistolare, chiese in modo riservato ma deciso una «penitenza pubblica» all’imperatore, che si era macchiato di un grave delitto pur dichiarandosi cristiano, pena l’esclusione dai sacri riti («Non oso offrire il sacrificio, se tu vorrai assistervi», Lettera 11). Teodosio accettò di rimettersi alla volontà del vescovo e fece atto di pubblica penitenza nella notte Natale di quell’anno, momento in cui venne assolto e riammesso ai sacramenti.
Dopo questo episodio la politica religiosa dell’imperatore si irrigidì notevolmente: tra il 391 e il 392 furono emanati una serie di decreti (noti come decreti teodosiani) che attuavano in pieno l’editto di Tessalonica: venne interdetto l’accesso ai templi pagani e ribadita la proibizione di qualsiasi forma di culto, compresa l’adorazione delle statue; furono inoltre inasprite le pene amministrative per i cristiani che si riconvertissero nuovamente al paganesimo e nel decreto emanato nel 392 da Costantinopoli, l’immolazione di vittime nei sacrifici e la consultazione delle viscere erano equiparati al delitto di lesa maestà, punibile con la condanna a morte.
Pensiero e opere
Fortemente legata all’attività pastorale di Ambrogio fu la sua produzione letteraria, spesso semplice frutto di una raccolta e di una rielaborazione delle sue omelie e che quindi mantengono un tono simile al parlato.
Per il suo stile dolce e misurato del suo parlato e della sua prosa, Ambrogio venne definito «dolce come il miele» e tra i suoi attributi compare perciò un alveare.
Esegesi
Oltre la metà dei suoi scritti è dedicata all’esegesi biblica, che egli affronta seguendo un’interpretazione prevalentemente allegorica e morale del testo sacro (in particolare per quanto riguarda l’Antico Testamento): ad esempio, ama ricercare nei patriarchi e nei personaggi biblici in generale figure di Cristo o esempi di virtù morali. Fu proprio questo metodo di lettura della Bibbia ad affascinare Sant’Agostino e a risultare determinante per la sua conversione (come egli scrisse nelle Confessioni V, 14, 24).
Secondo Gérard Nauroy, «per Ambrogio l’esegesi è un modo fondamentale di pensare piuttosto che un metodo o un genere: […] ormai egli “parla la Bibbia”, non più con la giustapposizione di citazioni dagli stili più diversi, ma in un discorso sintetico, eminentemente allusivo, “misterico” come la Parola stessa». Per Ambrogio la lettura e l’approfondimento della conoscenza biblica costituiscono un elemento fondamentale della vita cristiana: « Bevi dunque tutt’e due i calici, dell’Antico e del Nuovo Testamento, perché in entrambi bevi Cristo. […] La Scrittura divina si beve, la Scrittura divina si divora, quando il succo della parola eterna discende nelle vene della mente e nelle energie dell’anima »(Ambrogio, Commento al Salmo I, 33)
Tra le opere esegetiche spiccano l’esauriente commento al Vangelo di Luca (Expositio evangelii secundum Lucam) e l’Exameron (dal greco “sei giorni”). Quest’ultima opera, ispirata ampiamente all’omonimo Exameron di Basilio di Cesarea, raccoglie, in sei libri, nove omelie riguardanti i primi capitoli della Genesi dalla creazione del cielo fino alla creazione dell’uomo. Anche in questo caso, il racconto della creazione è occasione di evidenziare insegnamenti morali desunti dalla natura e dal comportamento degli animali e dalle proprietà delle piante; in questo senso l’uomo appare ad Ambrogio necessariamente legato con tutto il creato dal punto di vista non solo biologico e fisico, ma anche morale e spirituale.
Morale e ascetismo
Un altro gruppo significativo consiste nelle opere di argomento morale o ascetico, tra le quali risalta il De officiis ministrorum (talvolta abbreviato in De officiis), un trattato sulla vita cristiana rivolto in particolare al clero ma destinato a tutti i fedeli. L’opera ricalca l’omonimo scritto di Cicerone, che si proponeva come manuale di etica pratica indirizzato al figlio (cui è dedicato) rivolto soprattutto a questioni politico-sociali. Ambrogio riprende il titolo (indirizzando l’opera ai suoi “figli” in senso spirituale, cioè il clero e il popolo di Milano), la struttura (il libro è ripartito in tre libri, dedicati all’honestum, all’utile e al loro contrasto risolto nell’identificazione tra i due) e alcuni elementi contenutistici (tra i quali i principi della morale stoica, come il dominio della razionalità, l’indipendenza dai piaceri e dalla vanità delle cose, la virtù come sommo bene). Questi elementi sono rivisti con originalità in chiave cristiana: agli exempla tratti dalla storia e dalla mitologia classica, Ambrogio sostituisce ad esempio storie ed esempi tratti dalla Bibbia. In generale, è lo stesso orientamento del testo a non essere più etico-filosofico ma prevalentemente religioso e spirituale, come egli spiega fin dall’inizio: «Noi valutiamo il dovere secondo un principio diverso da quello dei filosofi. Essi considerano beni quelli di questa vita, noi addirittura danni» (De officiis, I, 9, 29). Allo stesso modo, le virtù tradizionali vengono rilette cristianamente e accettate alla luce del Vangelo: la fides (lealtà) diventa la fede in Cristo, la prudenza include la devozione verso Dio, esempi di fortezza divengono i martiri. Alle virtù classiche si aggiungono le virtù cristiane: la carità (che già esisteva nel mondo latino, ora assume un significato più interiore e spirituale), l’umiltà, l’attenzione verso i poveri, gli schiavi, le donne.
Altre cinque opere sono dedicate alla verginità, specialmente quella femminile (De virginibus, De viduis, De virginitate, De instituzione virginis e Exhortatio virginitatis). Ambrogio esalta la verginità come massimo ideale di vita cristiana, sulla scia della tradizione cristiana da San Paolo («colui che sposa la sua vergine fa bene e chi non la sposa fa meglio», 1 Cor 7,38) fino al contemporaneo Gerolamo, senza tuttavia negare la validità della vita matrimoniale. La scelta della verginità è ritenuta l’unica vera scelta di emancipazione per la donna dalla vita coniugale, in cui si trova subordinata. Critica aspramente in questo senso il fatto che il matrimonio costituisca solo un contratto economico e sociale, che non lascia spazio alla scelta degli sposi e in particolare della donna: «Davvero degna di compianto è la condizione che impone alla donna, per sposarsi, di essere messa all’asta come una sorta di schiavo da vendere, perché la compri chi offre il prezzo più alto» (De virginibus, I, 9, 56). Per questo Ambrogio incoraggia i genitori ad accettare la scelta di verginità dei figli e i figli a resistere alle difficoltà imposte dalla famiglia («Se vinci la famiglia, vinci anche il mondo», De virginibus, I, 11, 63).
Società e politica
Nel confronto con la società e gli ideali del mondo latino, Ambrogio accolse i valori civili della romanità con l’intento di dare ad essi nuovo significato all’interno della religione cristiana. Nel suo Esamerone esalta l’istituzione repubblicana (di cui l’antica repubblica romana era secondo lui un ammirevole esempio) prendendo spunto dalla spontanea organizzazione delle gru, che si dividono il lavoro avvicendandosi nei turni di guardia: « Che c’è di più bello del fatto che la fatica e l’onore comuni a tutti e il potere non sia preteso da pochi, ma passi dall’uno all’altro senza eccezioni come per una libera decisione? Questo è l’esercizio di un ufficio proprio di un’antica repubblica, quale conviene in uno stato libero. »(Esamerone, VIII, 15, 51)
Nella visione di Ambrogio inoltre potere e dell’autorità, intesi come servizio («Libertà è anche il servire», Lettera 7), dovevano essere sottomessi alle leggi di Dio. Prendendo ispirazione dal racconto della corona imperiale e del morso di cavallo realizzati, secondo la tradizione, da Costantino con i chiodi della croce di Gesù, nel discorso funebre di Teodosio egli elogiò la sottomissione dell’imperatore a Cristo, dimostrata in primis dall’episodio di Tessalonica: « Per quale motivo [ebbero] “una cosa santa sul morso” se non perché frenasse l’arroganza degli imperatori, reprimesse la dissolutezza dei tiranni che, come cavalli, nitrivano smaniosi di piaceri, perché potevano impunemente commettere adulteri? Quali turpitudini conosciamo dei Neroni e dei Caligola e di tutti gli altri che non ebbero “una cosa santa sul morso”! »(In morte di Teodosio, 50)
Di fronte al dispotismo e alla dissolutezza che avevano caratterizzato il comportamento di non pochi imperatori romani, Ambrogio vide nel cristianesimo una possibilità per “redimere” il potere imperiale e renderlo giusto e clemente. Nella sua idea, infatti, il cristianesimo avrebbe dovuto sostituire il paganesimo nella società romana senza per questo negare e distruggere le istituzione imperiali («Voi [pagani] chiedete pace per le vostre divinità agli imperatori, noi per gli stessi imperatorio chiediamo pace a Cristo», Lettera 73 a Valentiniano II), ma anzi dando ai valori romani la nuova linfa offerta dalla morale cristiana.
Ambrogio richiamò infine la società romana nella quale era sempre più accentuato il tra ricchi e poveri; alla sperequazione economica, Ambrogio contrapponeva infatti la morale del Vangelo e della tradizione biblica. Così egli scrive nel Naboth: « La terra è stata creata come un bene comune per tutti, per i ricchi e per i poveri: perché, o ricchi, vi arrogate un diritto esclusivo sul suolo? […] Tu [ricco] non dai del tuo al povero [quando fai la carità], ma gli rendi il suo; infatti la proprietà comune, che è stata data in uso a tutti, tu solo la usi. »(Naboth, 1,2; 12, 53).
Antigiudaismo
Per Ambrogio era fondamentale la storia di Israele come popolo eletto: da qui la grande presenza dell’Antico Testamento nel rito ambrosiano, le numerosissime sue opere di commento agli episodi della storia ebraica, la conservazione della sacralità del sabato, ecc. Tuttavia, come era comune nel cristianesimo dei primi secoli, forte era anche la volontà di mostrare l’originalità cristiana rispetto alla tradizione giudaica (che non aveva riconosciuto Gesù come Messia) e di affermare l’indipendenza e le prerogative della Chiesa nascente.
Ad esempio, nell’Expositio Evangelii secundum Lucam (4, 61), commentando un passo del vangelo di Luca in cui un uomo invaso dallo spirito di un demonio impuro, grida: «Ah! Che c’è fra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto per rovinarci? So chi tu sei: il Santo di Dio», Ambrogio critica aspramente l’incredulità della gente circostante: « Chi è colui che aveva nella sinagoga spirito immondo di demonio, se non la folla dei giudei che, come stretta da spire serpentine e legata dai lacci del diavolo, simulata la purità del corpo, profanava con le immondezze della mente interiore? Ebbene: era nella sinagoga l’uomo che aveva lo spirito immondo; perché lo Spirito Santo lo aveva ammesso. Era entrato infatti il diavolo dal luogo da cui Cristo era uscito. Insieme, si mostra la natura del diavolo non come ostinata, ma come opera ingiusta. Infatti quello che attraverso una natura superiore professa il Signore, con le opere lo nega. E in questo appare la sua malvagità [del demonio] e l’ostinazione dei giudei, poiché così [il demonio] spandé tra la folla la cecità della mente furiosa; affinché la gente neghi, colui che i demoni professano. O eredità dei discepoli peggiore del maestro! Quello tenta il Signore con le parole, essi con l’agire: egli dice “Buttati!” (Luc. IV, 9), questi sono assaliti perché [lo] buttino. »
L’episodio di Callinicum
Le cronache storiche riportano un episodio che può essere considerato rivelatore dell’atteggiamento di Ambrogio nei riguardi degli ebrei. Nel 388, a Callinicum (Kallinikon, sul fiume Eufrate, in Asia, l’attuale al-Raqqa), una piccola folla di cristiani diede l’assalto alla sinagoga e la bruciò. Il governatore romano condannò l’accaduto e, per mantenere l’ordine pubblico, dispose affinché la sinagoga venisse ricostruita a spese del vescovo. L’imperatore Teodosio I rese noto di condividere quanto deciso dal suo funzionario.
Ambrogio si oppose alla decisione dell’imperatore e gli scrisse una lettera (Epistulae variae 40) per convincerlo a ritirare l’ingiunzione di ricostruire la sinagoga a spese del vescovo: « Il luogo che ospita l’incredulità giudaica sarà ricostruito con le spoglie della Chiesa? Il patrimonio acquistato dai cristiani con la protezione di Cristo sarà trasmesso ai templi degli increduli?… Questa iscrizione porranno i giudei sul frontone della loro sinagoga: – Tempio dell’empietà ricostruito col bottino dei cristiani -… Il popolo giudeo introdurrà questa solennità fra i suoi giorni festivi… »
Citando dalla lettera di Ambrogio a Teodosio (Epistulae variae 40,11): « Ma ti muove la ragione della disciplina. Che cosa dunque è più importante, l’idea di disciplina [mantenimento dell’ordine pubblico] o il motivo della religione? »
Ambrogio non volle salire sull’altare finché l’imperatore non abolì il decreto imperiale riguardante la ricostruzione della sinagoga sulle spese del vescovo. Secondo la visione del vescovo, nella questione della religione l’unico foro competente da consultare doveva essere la Chiesa Cattolica e Apostolica la quale, grazie ad Ambrogio, divenne la religione statale e dominante. In questa impresa lo scopo era quello di avvalorare l’indipendenza della Chiesa dallo Stato, affermando anche la superiorità della Chiesa sullo Stato in quanto emanazione di una legge superiore alla quale tutti devono sottostare.