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Sinassario | 21 gennaio 2024

Ιαν 20, 2024 | Συναξάρι

  • Memoria del nostro venerando padre Massimo il Greco

Archimandrita Antonio Scordino

Nato nella nobile famiglia Trivolis, per motivi di studio visse a Firenze, Bologna, Vercelli, Venezia, Padova e Ferrara, dove entrò nell’Ordine dei Frati Domenicani. Ritornato alla Fede ortodossa, nel 1505 vestì l’abito monastico al Monte Athos. Chiamato dallo zar Basilio II, si stabilì in Russia, dove lavorò principalmente alla traduzione di opere liturgiche e ascetiche, e dove si addormentò nel 1555.

  • Memoria della Sinassi della Santissima icona della Madre di Dio chiamata della Consolazione

a cura della Chiesa Greco-Ortodossa di San Paolo Apostolo dei Greci, Reggio di Calabria

La sacra e venerabilissima Icona della Santissima Madre di Dio della “Consolazione” (Paramythia) si trova presso il Monastero di Vatopedi sul Monte Athos. 

Una volta, durante la notte, i pirati sbarcarono sulla spiaggia del monastero e si nascosero al di fuori di esso, tra i cespugli, in attesa che venisse aperto al mattino il portone per invaderlo e saccheggiarlo. I monaci dopo il congedo del Mattutino, ignari tornarono nelle loro celle, tranne l’abate, che rimase in preghiera nella chiesa principale, quando all’improvviso sentì una voce dall’icona della Madre di Dio che diceva: << Non aprite oggi le porte del monastero, ma salite sulle mura per respingere i pirati >>. L’abate guardò sorpreso la santa immagine, da cui proveniva la voce, e vide lo spettacolo paradossale. Il viso della Santissima Genitrice di Dio era vivo, e così anche il volto del Signore. Il Signore girando la testa verso il volto della Vergine e coprendo con la mano le labbra, le disse: << Non dire, Madre, nulla a loro, ma lascia che vengano puniti, come meritano >>. Ma quella con la sua mano rimosse dalle sue labbra la mano del Signore e girando più a destra la testa, ripeté le stesse parole.

Allora l’abate spaventato chiamò la Fratellanza comunicò loro gli eventi. E quando i monache osservarono la Sacra Icona, trovarono che i volti del Signore e della Madre di Dio, e l’intera descrizione e composizione dell’immagine erano cambiati e rimanevano in quello stesso atteggiamento che si è avuto al momento della secondo pronunciamento della Madre di Dio all’abate, vale a dire quando aveva rivolto il viso verso destra e con la mano aveva tolto la mano di suo Figlio dalle sue labbra. Poi i monaci accertata la veridicità delle parole dell’abate, subito dopo per prima cosa ringraziarono la Vergine Maria per la provvidenziale salvezza e protezione, salirono sulle mura e respinsero i pirati.

Questa miracolosa immagine della Santissima Madre di Dio è attualmente situata nella cappella omonima, sulla parete destra del coro. Il volto della Vergine Madre del Signore esprime ilarità, simpatia e amore, il suo sguardo ispira clemenza, gentilezza e la compassione. Le sue labbra esprimono un pudico sorriso, una voce e consolazione, perciò fu chiamato «Παραμυθία» << Consolazione>>. Invece il volto del Signore appare minaccioso, il movimento di rabbia è evidente, e lo sguardo pieno di rigore e di giudizio inesorabile.

  • Memoria di San Massimo, il confessore

Il venerabile Massimo, il cui nome significa “il più grande” e il cui costume di vita era insuperabile, nacque nella famosa regina delle città, Costantinopoli. I suoi genitori erano di nobile lignaggio e ortodossi, e gli diedero un’ottima educazione. Massimo studiò a fondo filosofia e teologia ed era ampiamente rispettato per la sua saggezza, anche nel palazzo imperiale. Impressionato dalla sua conoscenza e dalla vita virtuosa, l’imperatore Eraclio lo costrinse a diventare asekretis o primo segretario e lo nominò capo consigliere. L’intero Senato amava e rispettava Massimo, la cui competenza negli affari di governo era di prim’ordine.

In quei giorni apparve l’eresia del monotelismo, secondo il quale Cristo nostro Signore possiede un’unica volontà. Il suo antecedente era l’errata dottrina di Eutiche, il quale affermava che nostro Signore ha una sola natura, e negava l’insegnamento ortodosso secondo cui Lui, come Dio incarnato, ha due nature, volontà e operazioni indivise e non mescolate in una persona. Primi a difendere e diffondere il monotelismo furono Ciro, patriarca di Alessandria, e Sergio, patriarca di Costantinopoli. L’imperatore Eraclio fu presto indotto in questo errore dai due gerarchi. Ciro ad Alessandria e Sergio a Costantinopoli convocarono concili locali avallando l’eresia, che poi si diffuse in tutto l’Oriente. Solo San Sofronio, Patriarca di Gerusalemme, respinse la falsa dottrina. Vedendo che l’imperatore, i suoi cortigiani e molti altri erano stati corrotti, il beato Massimo temette di smarrirsi. Si dimise dai suoi doveri a corte e rinunciò a tutta la gloria del mondo, si recò in un monastero a Crisopoli, sulla sponda asiatica del Bosforo, e si fece monaco, preferendo essere un reietto nella casa di Dio piuttosto che abitare nelle tende dei peccatori. Per la sua vita virtuosa, dopo pochi anni venne eletto igumeno.

Nel frattempo, il patriarca Sergio convinse Eraclio a pubblicare un decreto chiamato Ekthesis, o “Esposizione”, che propugnava il monotelismo. All’intera popolazione dell’Impero fu ordinato di accettarlo e, di conseguenza, la Chiesa di Cristo fu gettata nella confusione. Il Padre Massimo osservava come il tumulto prevalesse a Costantinopoli e in tutto l’Oriente, come gli eretici si moltiplicassero e prendessero il controllo delle chiese, e come gli ortodossi fossero colpiti dalla tempesta della persecuzione e diminuissero di numero. Profondamente abbattuto, sospirava e piangeva amaramente, finché venne a sapere che l’eresia non aveva seguaci in Occidente e lì era stata completamente respinta. Severo, papa di Roma, disprezzava l’Ekthesis, e il suo successore Giovanni l’aveva fatta anatemizzare in un concilio. Così il beato Massimo decise di lasciare il suo monastero e di recarsi in Occidente. Come cristiano ortodosso, sperava di trovare rifugio presso gli ortodossi dell’antica Roma, poiché la Terra Santa era attaccata dai Saraceni ed era impossibile raggiungere Gerusalemme. Lungo il cammino visitò i vescovi del Nord Africa, conversò con loro, li confermò nella fede e consigliò loro come evitare di cadere nelle insidie ​​degli astuti avversari. A coloro che vivevano in città remote, inviò lettere in cui esponeva i dogmi dell’Ortodossia e metteva in guardia sui pericoli dell’eresia.
In quel periodo morì il patriarca di Costantinopoli e gli successe l’apostata Pirro. Morirono anche Ciro d’Alessandria e poi Eraclio. Prima di spirare, l’Imperatore, vergognandosi profondamente che molti illustri e santi gerarchi e saggi Padri avessero rifiutato e anatemizzato l’Ekthesis, fece sapere che non lui, ma Sergio aveva scritto il documento, e che lo aveva firmato solo su insistenza del Patriarca. Il figlio di Eraclio, Costantino, era il successore designato a governare l’Impero, ma dopo quattro mesi fu segretamente avvelenato dalla matrigna Martina. Con il consenso del patriarca Pirro, Martina elevò al trono il figlio Eraclona. Dopo aver regnato per sei mesi, i dignitari di corte insorsero contro Eraclona e Martina, tagliarono loro il naso e li esiliarono in disgrazia. I cortigiani scelsero come sovrano Costante, figlio dell’assassinato Costantino, nipote di Eraclio e padre di Costantino Pognato. Quando Costante II divenne imperatore, Pirro si spaventò moltissimo, sapendo che il popolo lo considerava cospiratore con Martina nella morte di Costantino. Si dimise dalla carica di patriarca e fuggì in Africa, e la sua sede fu occupata da Paolo, un altro eretico. Il nuovo imperatore annunciò di aderire anche lui al monotelismo, di cui divenne un famigerato sostenitore e divulgatore.

Il venerabile Massimo era ancora in Africa quando vi arrivò Pirro. Il Patriarca viaggiava da una città all’altra, sperando di corrompere gli ortodossi. Avrebbe potuto danneggiare seriamente le chiese di Cristo, se non avesse incontrato come avversario il pio Massimo. I due uomini trascorsero molte ore a discutere, e alla fine il patrizio Gregorio, governatore del paese, convocò un concilio al quale tutti i vescovi dell’Africa furono tenuti a partecipare. Il divinamente saggio Massimo, basandosi sulle Scritture e sui dogmi dei Santi Padri, confutò completamente Pirro nel sinodo, dimostrando che come Cristo Dio ha due nature, così deve avere due volontà e operazioni, indivisibili nella Sua unica Persona. Ammettendo la sconfitta, Pirro si unì agli ortodossi. Fu accolto calorosamente dalla Chiesa, trattato con la massima stima e gli fu concesso di assumere il titolo di patriarca. Pirro scrisse persino un libro in cui confessava la vera fede. Si recò a Roma per far visita a papa Teodoro, successore di Giovanni, e il papa lo salutò rispettosamente come patriarca ortodosso di Costantinopoli. Ben presto nella città imperiale si seppe che Pirro si era unito agli ortodossi. Gli eretici, colmi d’invidia, diffusero la voce che i vescovi africani e il papa avevano costretto Pirro ad aderire alle loro opinioni. Questa calunnia raggiunse l’imperatore, che mandò immediatamente in Italia uno dei suoi funzionari, un eretico di nome Olimpio, con l’ordine di riportare Pirro al monotelismo. Olimpio si stabilì a Ravenna, convocò Pirro da Roma e lo convinse a sposare nuovamente l’eresia. Come un cane che torna al suo vomito, Pirro si rese degno dell’anatema pronunciato successivamente dai santi padri contro di lui e contro coloro che la pensavano allo stesso modo.

A quel tempo l’imperatore Costante, sotto l’influenza del falso patriarca Paolo di Costantinopoli, firmò un editto eretico chiamato Typos, proprio come suo nonno Eraclio aveva firmato l’Ekthesis. Distribuì il documento in tutto l’Impero e ordinò a tutti di accettarlo. Il Typos raggiunse Roma quando Papa Teodoro era sul letto di morte. Dopo la scomparsa di Teodoro, divenne papa il beato Martino. L’Imperatore voleva che Martino approvasse il documento, ma lui rifiutò, dicendo: “Anche se il mondo intero abbracciasse la nuova eresia, io non lo farei. Non rinuncerò mai alle dottrine dei Vangeli e degli apostoli o alle tradizioni dei Santi Padri, anche se sono minacciato di morte.”

San Massimo si trovava a Roma in quel periodo e consigliò al beato Martino di convocare un concilio locale e di condannare il Typos come estraneo agli insegnamenti della Chiesa di Cristo. Il Papa acconsentì e 105 vescovi, con il padre Massimo, lanciarono anatemi sugli errori di Ciro, Sergio, Pirro, Paolo e il Typos. Successivamente, il Papa scrisse ai fedeli di tutto il mondo, confermandoli nell’Ortodossia, spiegando gli errori degli eretici e mettendo in guardia contro di loro. Quando l’imperatore seppe di ciò, si arrabbiò e mandò in Italia il suo reggente Teodoro Calliopo con l’ordine di catturare papa Martino. Le accuse contro il Papa erano le seguenti: di aver avviato trattative segrete con i Saraceni, spingendoli ad attaccare l’Impero Romano; che non si era attenuto alla fede tramandata dai Padri, e che aveva bestemmiato la purissima Madre di Dio. All’arrivo a Roma, il rappresentante dell’Imperatore accusò pubblicamente il Papa di questi crimini. Il beato Martino, del tutto innocente, così rispose: “Non ho mai avuto rapporti con i Saraceni, anche se ho inviato elemosine a fratelli ortodossi che vivevono in povertà sotto il loro oppressivo dominio. Quanto a coloro che non onorano, confessano, e venerano la purissima Madre di Dio, siano maledetti in questa vita e nell’età futura. Non siamo noi a tradire la fede trasmessa dai santi apostoli e dai santi padri, ma coloro che ragionano diversamente da noi.”

Il rappresentante di Costante non prestò attenzione alla difesa di Martino, ma lo dichiarò colpevole come accusato, aggiungendo che Martino era diventato pontefice con mezzi illegali. Di notte lo arrestò in gran segreto e lo inviò sotto scorta armata presso l’Imperatore. Da Costantinopoli, San Martino fu esiliato a Cherson, dove morì.

Poco prima dell’arresto del Papa, il venerabile Massimo e il suo discepolo Anastasio furono presi in custodia e mandati in catene da Roma a Costantinopoli. Ciò avvenne per ordine dell’Imperatore, poiché sapeva che Massimo aveva consigliato a San Martino di convocare il sinodo che condannava il monotelismo e il Typos. Quando San Massimo sbarcò a Bisanzio, gli uomini di Costante gli vennero incontro, fissandolo con ferocia. Senza vergogna afferrarono il santo, che era scalzo e seminudo, e lo trascinarono per le strade. Il suo discepolo lo seguiva, ma non gli fu permesso di condividere la sua cella oscura, e fu gettato in una prigione diversa. Diversi giorni dopo, il santo fu portato a palazzo per essere interrogato dall’intero senato; l’Imperatore, però, non era presente. Quando Massimo entrò, gli occhi di tutti, pieni di odio, erano puntati su di lui. Uno degli ufficiali, il gazophylax, o tesoriere, fu incaricato dell’interrogatorio. Era un uomo dal parlare pacato, abile nel presentare la falsità come un fatto, escogitando argomenti speciosi e distorcendo la verità. Che insolenza e doppiezza mostrò quell’uomo! Quali rimproveri e insulti riversò sul nostro benedetto padre! Non si lasciò intimidire dall’età dell’anziano (San Massimo aveva allora più di settant’anni), né dalla luce della grazia che risplendeva dal suo volto, né dal suo comportamento mite e corretto, né dai suoi modi pacati e gentili, né dall’abito monastico. Lanciando calunnie feroci contro l’innocente, mostrò la più grande malizia e si dimostrò maestro di astuzia. Egli non riuscì però a confutare in modo fondato le argomentazioni sobrie e senza pretese del santo, e alla fine fu ridotto in confusione e sconfitto. L’apocrisiarios o legato della Chiesa romana e discepolo di san Massimo, un altro Anastasio, descrive dettagliatamente le mendaci accuse mosse contro il santo, ma non possiamo fare altro che fornire qui un riassunto del suo racconto.

Facendosi avanti per affrontare il suo gentile avversario, il malvagio tesoriere iniziò con l’insultarlo e tentando di spaventarlo. Chiamò Massimo un astuto traditore, un nemico dell’imperatore, e gli attribuì ogni sorta di azioni malvagie e insidiose. Il santo negò di aver tradito il regno e chiese al suo accusatore perché lo stesse diffamando. Il tesoriere rispose producendo testimoni che affermavano che Massimo aveva consegnato molte grandi città ai barbari. “Hai strappato Alessandria, la Pentapoli e tutto l’Egitto all’Impero”, delirava, “dandoli ai Saraceni, verso i quali sei ben disposto”.

Il santo fece notare che l’accusa era ridicola. “Cosa c’entro io, un monaco, con la difesa e la conquista delle città?” chiese. “Perché io, cristiano, dovrei aiutare i Saraceni? Desidero solo benedizioni per le città cristiane.”

L’audace bugiardo rispose con nuove falsità, gridando che il beato Massimo preferiva i re d’Occidente all’imperatore d’Oriente, e per confermarlo presentò degli spergiuri. Il Venerabile sospirò: “Ringrazio Dio che mi ha permesso di cadere nelle vostre mani e spero che, sopportando queste afflizioni, le mie volontarie trasgressioni possano essere espiate. Riguardo alla vostra ultima accusa, vorrei sapere: mi avete ascoltato condannare l’Imperatore, o altri ti hanno riferito quello che ho detto?”

Gli accusatori risposero: “L’abbiamo sentito da altri, che lo hanno sentito dalla tua bocca”.

A questo punto il santo chiese che costoro testimoniasero di persona, ma si sentì rispondere che erano morti. “Perché allora”, chiese san Massimo, “non mi hai interrogato mentre erano in vita? Ti saresti risparmiato la fatica di inventare molte menzogne ​​e avresti potuto condannarmi sulla base di una verità evidente. È ovvio che non ho commesso alcun crimine e che i miei calunniatori non hanno timore di Dio, che scruta i cuori degli uomini. Possa io cessare di essere considerato cristiano dal Signore e non contemplare mai il suo volto se in qualsiasi momento ho intrattenuto nei miei pensieri, raccontato, o abbia prestato ascolto a chiunque mi proponesse le azioni spregevoli che mi attribuisci!”

Allora i nemici del santo produssero un altro falso testimone, di nome Gregorio, il quale affermò di aver sentito a Roma Anastasio, discepolo di Massimo, dire che lui e il suo maestro ritenevano che Costante rivendicasse l’autorità sacerdotale. San Massimo confutò direttamente Gregorio, dicendo: “Quando quest’uomo era a Roma, discutemmo di monotelismo e ci spingeva ad accettare il Typos. Memori del giudizio del Signore, rifiutammo. Dio mi è testimone che né io né il mio discepolo abbiamo mai detto che l’imperatore giocava a fare il sacerdote. Quello che ho detto, non ad Anastasio, ma allo stesso Gregorio, è stato: “Non è compito dei governanti investigare e definire i dogmi della fede, ma dei ministri dell’altare, che ungono l’Imperatore e impongono le mani su di lui, offrono il Pane del cielo e compiono gli altri alti e divini Misteri.’ Lo dissi allora e lo confermo anche adesso. Gregorio ricorda le mie parole. Se nega di averle sentite, è perché ritiene vantaggioso farlo. Questa è la verità; giudicatemi come volete.”

I pubblici ministeri, avendo riposto tutte le loro speranze in falsi testimoni, non sapevano come procedere contro san Massimo, così lo portarono via e convocarono il suo discepolo Anastasio. Tentarono di costringerlo a confermare le accuse infamanti e a testimoniare che il beato aveva usato la tortura per costringere Pirro a rinunciare al monotelismo. Anastasio non si lasciò intimidire, ma affermò coraggiosamente che il suo maestro non aveva fatto del male a Pirro e lo aveva trattato con particolare rispetto; dopo di che lo presero a pugni sul collo, sul viso e sulla testa. Incapaci di prevalere sulla verità con la violenza, alla fine desistettero e riportarono Anastasio in prigione. Nel frattempo escogitarono nuove calunnie, poi riportarono indietro il santo e tentarono di nuovo di vincere l’imbattibile, affermando che era un origenista. Il Beato li confutò facilmente, proclamando che Origene era separato da Cristo e da tutti i cristiani, e che i suoi seguaci meritavano il giudizio divino. Successivamente i pubblici ministeri chiesero a Massimo di spiegare perché si era separato dalla comunione con il Patriarca di Costantinopoli e lo interrogarono su Pirro. Lo interrogarono anche su altri punti e gli proposero di accettare il Typos imperiale come perfetta e lodevolissima esposizione della fede. Ma il santo si rifiutò assolutamente di farlo. Gli lanciarono vari insulti, ma temendo di rimanere intrappolati nelle loro stesse insidie, non volevano rischiare di essere sconfitti nel dibattito. Tornando di corsa dall’imperatore, testimoniarono l’invincibile valore del Padre di Crisopoli, dicendo: “Nessuno può battere Massimo nelle argomentazioni. È dubbio che si possa convincerlo ad essere d’accordo con noi, anche se si impiega la tortura”.

L’anziano fu riportato nella sua prigione, ma non molto tempo dopo arrivarono dei visitatori, sperando di intimidirlo o almeno indebolire la sua pazienza. Annunciarono che li aveva mandati il ​​Patriarca, poi chiesero al santo: “A quale Chiesa appartieni: a quella di Bisanzio, Roma, Antiochia, Alessandria o Gerusalemme? Tutte queste chiese e le province sotto di loro sono in armonia. Se tu appartieni alla Chiesa cattolica, devi entrare subito in comunione con noi, per non tracciare una strada nuova e strana e cadere in un disastro inaspettato.”

L’uomo di Dio rispose saggiamente: «Cristo Signore riconosce cattolica quella Chiesa che mantiene la vera e salvifica confessione di fede. Ha chiamato beato Pietro per la sua retta confessione, sulla quale ha edificato la sua Chiesa. Ma ditemi: su quale base tutte le Chiese, come voi dite, sono entrate in comunione? Se ciò avviene su un fondamento di verità, non voglio separarmi da loro».

I messaggeri dissero: “Nessuno ci ha incaricato di parlare di questo; tuttavia spiegheremo. Confessiamo entrambe le due operazioni in Cristo a causa delle sue nature distinte, e un’operazione perché le due nature sono unite in una persona”.

“Se volete dire che le due operazioni sono diventate una per effetto dell’unione delle due nature in una persona, allora oltre a quelle due operazioni ne riconoscete una terza, nella quale l’umano e il divino si confondono”, affermava il santo.

“No”, risposero i messaggeri. “Riconosciamo le due operazioni, ma ne parliamo come una sola in conseguenza del loro essere unite.”

“Voi state escogitando per voi stessi una fede infondata, affermando che Dio può esistere senza essere”, disse Massimo. “Unendo le due operazioni per l’unione di due nature in una sola persona, e dividendo l’unica operazione in due a causa della distinzione delle nature, non consentite né una né due operazioni, poiché la dualità è esclusa dall’unione, e viceversa. Questi accorgimenti rendono inefficace l’unione di Dio e dell’uomo in Cristo, o meglio la aboliscono del tutto, poiché presuppongono attività proprie a nessuna delle due nature. Un’essenza che non si manifesta nella propria operazione non ha essere. per questo non sarò mai d’accordo con la vostra interpretazione della fede. Essa è contraria a tutto ciò che ho imparato dai Santi Padri. Quanto alla mia sorte nel mondo, fate di me quello che volete: avete potere sul mio corpo.” I messaggeri non sapevano come rispondere alle argomentazioni del santo, quindi si limitarono ad assicurargli che se non si fosse sottomesso sarebbe stato anatematizzato e messo a morte. Mitemente e umilmente, il santo disse: “Sia fatta la volontà di Dio in me, a gloria del suo santo nome”.

I messaggeri tornarono dal Patriarca e raccontarono tutto. Allora l’imperatore si consultò con il patriarca, come Pilato con gli ebrei dell’antichità, ed esiliò il santo a Bizye, una città della Tracia. Bandirono il suo discepolo Anastasio in un luogo tetro ai confini dell’Impero, chiamato Perveris nella lingua dei barbari locali, e mandarono l’altro discepolo del santo, Anastasio, ex apocrisiarios di Roma e autore della Vita di Massimo, alla città tracia di Mesembria. Accadde più o meno nello stesso periodo in cui arrivò a Costantinopoli il beato Martino, papa di Roma, che dopo aver sopportato molte sofferenze, fu esiliato a Cherson. Prima che Martino fosse mandato via, morì il patriarca Paolo di Costantinopoli. Pirro riconquistò il trono patriarcale, ma quattro mesi dopo morì anche lui. A Pirro successe Pietro, un ostinato monotelita.

 

Dopo un po’ di tempo, tre uomini di alto rango, Teodosio, vescovo di Cesarea in Bitinia, e i patrizi Paolo e Teodosio, furono inviati da Costante e dal patriarca Pietro per conquistare il santo. A loro si unì il vescovo di Bizye. Essi alternativamente adulavano e minacciavano Massimo, mettendo alla prova la sua fede e ponendo varie domande. Cominciarono col presentarsi, poi invitarono Massimo a sedersi. Il vescovo Teodosio chiese: “Come stai, mio ​​signore Padre Massimo?”

“Esattamente come Dio sapeva che sarei stato prima dei secoli”, rispose il santo. “Ha preordinato le circostanze della mia vita, che è custodita dalla provvidenza.”

“Come può essere?” obiettò Teodosio. “Dio ha preconosciuto e effettivamente preordinato le nostre azioni dall’eternità?”

Il santo disse: “Egli preconosceva i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre azioni, che tuttavia rimangono sotto il nostro potere di controllo; e ha preordinato ciò che ci accade. Quest’ultimo non è soggetto al nostro controllo, ma alla volontà divina”.

“Spiega più esattamente cosa è in nostro potere e cosa no”, chiese il vescovo Teodosio.

“Mio signore, tu sai tutto questo”, rispose San Massimo. “Chiedi solo di provare il tuo servitore.”

Il Vescovo ha ammesso: “Veramente non lo so. Desidero capire cosa possiamo controllare e cosa no, e come Dio ha previsto l’uno e preordinato l’altro”.

Il venerabile Massimo spiegò: “Non controlliamo direttamente se le benedizioni saranno riversate su di noi o i castighi ci colpiranno, ma le nostre azioni buone e cattive dipendono quasi interamente dalla nostra volontà. Non sta a noi scegliere se siamo in salute o in malattia. ma prendiamo decisioni che possono portare all’una o all’altra. Allo stesso modo, non possiamo semplicemente decidere se raggiungeremo il Regno dei Cieli o saremo gettati nel fuoco della Geenna, ma possiamo volere osservare i comandamenti o trasgredirli.

Allora il Vescovo chiese: “Perché insisti nel prolungare il tuo esilio e la tua prigionia?”

“Prego Dio che, castigandomi con queste sofferenze, mi perdoni la mia incapacità di osservare i suoi comandamenti”, rispose Massimo.

“Non è forse vero che molti sono provati dalle afflizioni?” chiese Teodosio.

«I santi vengono messi alla prova affinché le loro virtù segrete possano essere manifestate a tutti, come nel caso di Giobbe e Giuseppe», disse il santo. “Giobbe fu tentato e dimostrò una perseveranza seconda a nessuno, e Giuseppe subì prove che rivelarono la sua castità e astinenza, qualità dei santi. Se Dio ha permesso che i santi soffrissero in questa vita, è perché desiderava vederli sconfiggere il diavolo, l’antico serpente. In un certo senso, la pazienza dei santi era effettivamente il risultato delle loro tribolazioni.”

“In verità parli bene e in modo istruttivo”, sospirò il vescovo Teodosio, “e sarei felice di conversare con te in qualsiasi altro momento su tali argomenti. I miei compagni, gli onorati patrizi, e io, abbiamo percorso, tuttavia, una distanza considerevole per parlare d’altro. Abbiamo una proposta da farti e speriamo che la accoglierai e rallegrererai il mondo intero.”

“Qual è, mio ​​signore,” chiese il santo, “e chi sono io affinché il mio consenso possa piacere al mondo intero?”

Il Vescovo rispose: “Poiché il Signore Gesù Cristo è la Verità stessa, racconterò esattamente ciò che il nostro maestro Patriarca e devotissimo Imperatore ha detto a me e ai miei signori illustri patrizi”.

“Parla, mio ​​signore. Ascolto”, disse Massimo.

“L’Imperatore e il Patriarca vogliono che tu spieghi perché ti sei tagliato fuori dalla comunione con la sede di Costantinopoli”, disse Teodosio.

«Nella sesta indizione dell’ultimo ciclo, Ciro, patriarca di Alessandria, pubblicò i Nove Capitoli, che furono approvati dalla sede di Costantinopoli», raccontò il santo. «Ben presto alle novità proposte in quel documento ne seguirono altre, ribaltando le definizioni dei santi concili. Queste innovazioni furono ideate dai primati della Chiesa di Costantinopoli Sergio, Pirro e Paolo, come ben sanno tutte le altre Chiese. Questa è la ragione per cui io, tuo servo, non sono in comunione con il trono di Costantinopoli. Siano respinte le offese introdotte da quegli uomini e deposti i complici; allora sarà spianata la via della salvezza e camminerai sulla via piana del Vangelo non minacciata dall’eresia. Quando vedrò la Chiesa di Costantinopoli com’era prima, entrerò in comunione con lei senza costrizione, ma finché persisterà in lei lo scandalo dell’eresia e i suoi vescovi saranno miscredenti, nessuna discussione o persecuzione potrà convincermi ad essere al tuo fianco.”

Il vescovo Teodosio chiese: “Precisamente quale malvagità nella nostra confessione ti impedisce di entrare in comunione con noi?”

Il divino Massimo rispose: “Voi dite che la divinità e l’umanità del Salvatore condividono un’unica operazione, ma i Santi Padri insegnano che ogni natura distinta ha una sua operazione distinta. Non è la Santissima Trinità che confessate, ma una quaternità. Ponendo una sola operazione della divinità e dell’umanità del Salvatore, voi pretendete che il Verbo non abbia assunto la nostra carne e quella della intemerata Vergine Theotokos, ma una carne dotata delle qualità della natura divina. In verità, negate la Trinità e inventate una quaternità, perché negate che Cristo aveva una vera natura umana e immaginate che la natura formata nell’Incarnazione fosse effettivamente coessenziale a quella del Verbo preeterno, come il Verbo è coessenziale al Padre e allo Spirito. Di nuovo, sconfessando le due operazioni e affermando che la divinità e l’umanità di Cristo condividono un’unica volontà, private il Signore della capacità di fare il bene come Dio e come uomo: infatti, se una natura manca della sua operazione intrinseca, è incapace di fare qualsiasi cosa. Confessando inoltre che il Cristo incarnato ha due nature e una sola volontà, che è divina, si deve dire che la sua carne, secondo la sua volontà, ha creato tutti i secoli e tutto ciò che esiste, con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, mentre esso stesso sarebbe stato creato secondo la sua natura. Voi rendete la carne senza inizio secondo la sua volontà (poiché la volontà divina, come la divinità, non può avere né inizio né fine), ma ammettete che, secondo la sua natura, è stata modellata nel tempo. Ciò non ha senso, o meglio, è del tutto empio. Quanto al Typos e alle leggi dell’Imperatore, vietando di menzionare una o due volontà, o le operazioni delle nature di Cristo, privano Cristo Signore di tutte le proprietà e manifestazioni che dimostrano la Sua natura umana e la Sua natura divina. Il Typos e le leggi riflettono bene la vostra posizione, perché capovolgete la nozione di un’unica volontà e operazione insistendo sulla loro dualità e contraddicete la verità che ci sono due volontà e operazioni fondendole in una sola.”

Sentendo san Massimo dire questo e molto altro (che il suo discepolo Anastasio racconta dettagliatamente), i suoi avversari cominciarono a rendersi conto del loro errore. Tuttavia, il Vescovo propose di “accettare il Typos dell’Imperatore non come espressione di dogma, ma come la sua interpretazione personale e un mezzo per mettere a tacere le controversie”.

“Se il Typos non è una definizione dogmatica che stabilisce che nostro Signore ha un’unica volontà e operazione, perché sono stato esiliato in una terra di barbari e pagani che non conoscono Dio?” chiese Massimo. “Perché marcisco qui e i miei compagni di ascesi in Perveris e Mesembria?”

Poi il santo ricordò come il sinodo convocato a Roma dal beato papa Martino avesse condannato i monoteliti, al che il vescovo Teodosio rispose: “È la convocazione dell’imperatore che dà autorità al concilio”.

“Se così fosse, la fede ortodossa sarebbe finita da tempo”, ha detto Massimo. “Ricordiamo i concili convocati con decreto imperiale per proclamare che il Figlio di Dio non è della stessa essenza di Dio Padre. Il primo si tenne a Tiro, il secondo ad Antiochia, il terzo a Seleucia, il quarto a Costantinopoli sotto Eudossio l’Ariano, il quinto a Nicea e il sesto a Sirmio. Molto più tardi ebbe luogo a Efeso un settimo falso concilio, presieduto da Dioscoro. Tutti questi sinodi furono convocati per decreto imperiale, ma furono respinti e anatematizzati, poiché sostenevano dottrine empie. Per quale motivo, vorrei sapere, accettate il concilio che condannò e anatemizzò Paolo di Samosata? Il concilio fu presieduto da Gregorio il Taumaturgo, e le sue risoluzioni furono confermate da Dionigi papa di Roma e da Dionigi di Alessandria. Nessun imperatore lo ha convocato, ma è inattaccabile e irrefutabile. La Chiesa ortodossa riconosce come veri e santi proprio quei sinodi che hanno proclamato veri dogmi. Vostra Santità sa che i canoni richiedono che due volte all’anno si tengano concili locali in ogni terra cristiana per la difesa della nostra fede salvifica e per scopi amministrativi; tuttavia, essi non dicono nulla sui decreti imperiali.”

Entrambe le parti presentarono argomenti diversi, ma san Massimo parlò sotto la manifesta influenza dello Spirito Santo. Il risultato della lunga discussione fu che la sua eloquenza e la saggezza divina sconfissero gli avversari, che rimasero a lungo seduti a testa bassa e con lo sguardo fisso a terra. Poi, spinti dalla contrizione, cominciarono a piangere, dopo di che si inchinarono davanti al santo, e lui davanti a loro. Pregarono con Massimo, accettarono con fervore e gioia il suo insegnamento ortodosso e promisero che lo avrebbero confessato e avrebbero tentato di conquistare l’imperatore. A prova della loro sincerità, baciarono il divino Vangelo, la croce onorata e le sante icone del Salvatore e della Theotokos. Dopo aver parlato a lungo con l’anziano di vari argomenti edificanti, si scambiarono con lui un bacio nel Signore e lo salutarono. Al ritorno a Costantinopoli, il vescovo Teodosio e i patrizi raccontarono tutto all’imperatore e il sovrano si arrabbiò. Temendo la sua ira, tutti e tre gli uomini tornarono all’eresia. Al patrizio Paolo fu dato ordine di ritornare a Bizye e di condurre il venerabile Massimo a Costantinopoli, mostrandogli ogni cortesia. Al santo fu assegnato alloggio nel Monastero di San Teodoro.

La mattina successiva i patrizi Epifanio e Troilo furono inviati al santo dall’imperatore. Erano splendidamente abbigliati e accompagnati dal vescovo Teodosio e da numerosi nobili, soldati e servi. San Massimo sperava che il vescovo portasse notizia di come aveva adempiuto con successo alla sua promessa di confessare l’Ortodossia e di aver tentato di convertire l’imperatore. Invece il beato apprese che Teodosio era stato falso, preferendo compiacere il sovrano terreno piuttosto che il Re del cielo e la Sua Santa Chiesa. Quando i visitatori si furono seduti e ebbero persuaso il venerabile a sedersi, Troilo iniziò così la conversazione: “L’imperatore, che Dio ha costituito signore delle estremità della terra, ci ha inviato per dichiarare ciò che desidera che tu faccia. Raccontaci se obbedirai.”

San Massimo disse: “Dimmi prima, mio ​​​​signore, cosa vuole Sua Maestà e ti risponderò. Come posso rispondere a una richiesta che non ho sentito?”

Troilo insistette: “Devi assicurarci che ti sottometterai; poi ti spiegheremo”.

Di fronte alla forte e insistente richiesta di Troilo e agli sguardi arrabbiati di tutti i nobili, l’uomo di Dio dichiarò: “Poiché non vuoi dire al tuo schiavo ciò che il nostro signore l’imperatore chiede da me, dichiaro davanti a Dio stesso, ai santi angeli, e a voi che se il sovrano richiede qualcosa di significato temporale e transitorio, e non è nemico di Dio e della salvezza eterna della mia anima, lo adempirò volentieri.”

A questo punto Troilo si alzò e gridò: “Me ne vado. È chiaro che non hai intenzione di sottometterti”.

Ne seguì un tumulto e il vescovo Teodosio disse: “Digli cosa vuole l’imperatore e ascolta la sua risposta. Non dobbiamo andarcene senza averlo fatto”.

Il patrizio Epifanio dichiarò: “Ascolta le parole di Sua Maestà: ‘Con te come guida, gli scismatici in tutto l’Oriente e l’Occidente si sono ribellati contro di noi. Aumentano sempre di numero e fomentano disordini; inoltre, hanno interrotto la comunione con noi. Possa il Signore addolcire il tuo cuore per condividere con noi l’Eucaristia. Se accetti il nostro Typos, ti riceveremo amorevolmente, ti accompagneremo in chiesa con onore e ti faremo sedere al nostro fianco, nel posto riservato ai governanti. Insieme, prenderemo parte ai Misteri immacolati e vivificanti del Corpo e del Sangue di Cristo. Ti proclameremo nostro padre e ci sarà una grande gioia non solo nella nostra città amante di Cristo, ma in tutto il mondo. Quando entrerai nella comunione con la santa Chiesa di Costantinopoli, tutti coloro che ci hanno reciso a causa del tuo insegnamento saranno uniti a noi. Di questo siamo certi.’ ”

Con le lacrime agli occhi, il santo padre Massimo disse sospirando al vescovo Teodosio: “Noi tutti aspettiamo il grande giorno del giudizio, Maestro. Hai dimenticato ciò che hai promesso davanti al Vangelo divino, alla Croce vivificante e alle sacre icone del nostro Salvatore? Gesù Cristo e la Sua purissima Madre, la Theotokos e la sempre vergine Maria?”

Il Vescovo, chinando il capo, mormorò con voce rotta: “Cosa potevo fare? Il devotissimo imperatore era già giunto ad una conclusione sulla questione.”

Il santo Massimo lo incalzò dicendo: «Perché tu e i tuoi compagni avete messo le mani sul santo Vangelo, se non avevi la ferma intenzione di adempiere il tuo voto? In verità, tutte le schiere del cielo non possono persuadermi a fare ciò che proponi. Dovrei rispondere non solo a Dio, ma alla mia coscienza, se rifiutassi la verità e la fede salvifica a causa della vuota gloria e dell’adulazione degli uomini, che non valgono nulla”.

I seguaci dell’Imperatore balzarono in piedi furiosi, si gettarono sul nostro padre e lo tempestarono di colpi e insulti. Lo trascinarono, lo presero a calci e lo calpestarono, e lo avrebbero ucciso se il vescovo Teodosio non li avesse trattenuti. Quando ebbero smesso di percuotere e di lacerare l’uomo di Dio, lo coprirono di sputi. Su Massimo gocciolava la loro saliva puzzolente, dalla testa ai piedi, e i suoi vestiti erano inzuppati.

Il vescovo disse agli altri: “Non era necessario. Avreste dovuto andarvene non appena ha risposto e riferire all’imperatore. I canoni non autorizzano tali abusi”. Con difficoltà Teodosio li calmò un po’ e li convinse a sedersi, sebbene continuassero a scagliare al santo gli insulti più grossolani.

Poco dopo, il patrizio Epifanio iniziò a rimproverare con rabbia l’anziano. “Dicci, malvagio barba grigia, posseduto da un demonio: perché consideri eretici l’imperatore e i cittadini della capitale? Noi siamo più cristiani di te, e più ortodossi”, delirava. «In Cristo Gesù nostro Signore riconosciamo una volontà divina e umana e un’anima razionale. La capacità operativa è intrinseca all’essere senziente, come la volontà lo è alla mente, e ogni natura razionale possiede una potenza di volere e una capacità di operazione corrispondente a stessa. Riconosciamo che il Signore ha il potere di volere secondo la sua divinità e la sua umanità e non neghiamo che abbia due volontà e due operazioni.

“Se credi come si addice ai sani di mente e come insegna la Chiesa di Dio, allora perché cerchi di costringermi ad accettare il Typos, che vieta qualsiasi affermazione di ciò che ora pretendi di sostenere?” chiese San Massimo.

Epifanio rispose: “Il Typos è stato scritto per porre fine alle controversie su questioni che non sono del tutto comprensibili e per proteggere le persone da errori rispetto a ciò che capiscono poco”.

“Il Typos si oppone ad una corretta confessione della fede, mediante la quale ogni persona viene santificata”, insistè il padre Massimo.

Allora il patrizio Troilo intervenne: “Il Typos non nega le due volontà in Cristo, ma ordina semplicemente che non se ne discuta, per amore della pace”.

“Sopprimere la confessione della fede è negarla”, ribattè il nostro padre. “Lo Spirito Santo dichiara per mezzo del profeta: Non ci sono lingue né parole in cui non si oda la loro voce; di conseguenza, se una parola non viene pronunciata, non è affatto una parola”.

Troilo disse: “Credi ciò che desideri nel tuo cuore. A nessuno importa quello che pensi, finché non crei problemi”.

“La nostra salvezza non dipende soltanto dalla fede del cuore”, diceva San Massimo. “Il Signore insegna: Chiunque mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli. Inoltre, il divino Apostolo ci dice: Con il cuore l’uomo crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa confessione per la salvezza. Se Dio, i profeti e gli apostoli comandano che sia confessato apertamente il mistero della fede, che è la salvezza del mondo intero, allora la nostra salvezza è ostacolata quando ne viene vietata la proclamazione.

A questo Epifanio gridò con rabbia: “Hai firmato gli atti del concilio tenutosi a Roma?”

“L’ho fatto”, rispose il santo.

“Hai osato mettere il tuo nome su un documento che anatemizza la Chiesa cattolica e ogni persona sana di mente? Ti trascineremo per le strade e nel foro; ti legheremo; e permetteremo che attori, prostitute e plebe ti prendano a pugni e sputi in faccia”, minacciò Epifanio.

«Sia come dici tu», convenne il santo, «se anatemizziamo coloro che confessano due nature e due volontà e operazioni corrispondenti in Cristo nostro Signore, vero Dio secondo la sua natura divina e vero uomo secondo la sua natura umana. Leggete, mio ​​signore, gli atti del sinodo tenutosi a Roma: tutti coloro che li hanno firmati hanno pronunciato l’anatema solo su coloro che, come Ario e Apollinario, riconoscono nel Signore una sola volontà e una sola operazione, e non lo riconoscono come avente una distinta operazione e volontà per ciascuna delle due nature con le quali ha realizzato la nostra salvezza.

“«Se lo lasciamo continuare moriremo di fame o di sete», brontolavano i patrizi e gli altri. “Dovremmo cenare e riferire all’Imperatore e al Patriarca quello che abbiamo sentito. Il furfante si è consegnato a Satana.” Detto questo si alzarono e andarono a mangiare, sebbene fosse la vigilia dell’Esaltazione della Preziosa Croce e stesse per iniziare la Veglia notturna. Dopo aver mangiato tornarono in città.

La mattina dopo, il patrizio Teodosio tornò dal venerabile Massimo e annunciò a nome dell’imperatore: “Poiché rifiuti di essere onorato, sarai nuovamente esiliato e trattato in modo consono alla tua ostinazione”.

Teodosio consegnò nostro padre nelle mani dei soldati, che lo portarono a Selimbria, dove rimase due giorni. Nel frattempo, una recluta locale messa in giro per l’accampamento dell’esercito lì calunniava dicendo che Massimo aveva bestemmiato la purissima Theotokos. La notizia giunse ai cittadini, aizzandoli contro il santo. Il generale della recluta convocò i presbiteri e i diaconi più rispettati di Selimbria, nonché i monaci più venerati, e li mandò a sapere se era vero ciò che si diceva del beato Massimo. Il santo salutò il clero e i monaci con una prostrazione, ed essi si prostrarono a turno; poi tutti si sedettero. Un anziano rispettato chiese al pio: “Santo padre, la gente dice che tu neghi che Nostra Signora, la purissima Vergine Theotokos, sia la Madre di Dio. Ti preghiamo, in nome della consustanziale Trinità, di dirci la verità e dissipare le nostre perplessità. Non vogliamo condannarvi ingiustamente».

Quell’uomo divino cadde nuovamente prostrato, allargando le braccia a formare una croce, poi si alzò e alzò le mani al cielo. Con le lacrime agli occhi, dichiarava solennemente: «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, Trinità coessenziale e sovrasostanziale; di tutte le schiere del cielo; del coro dei santi apostoli e profeti; della schiera innumerevole di martiri e di ogni anima giusta che riposa nella fede: sia anatema chi non confessa la nostra tanto celebrata, tutta santa, purissima Signora, il più onorevole degli esseri razionali, come la vera Madre di Dio, Che ha fatto il cielo e la terra, il mare e quanto contiene, ora e sempre

e nei secoli dei secoli.”

Udendo ciò, i monaci e il clero piansero. Benedissero San Massimo dicendo: “Dio ti fortifichi, Padre, e ti conceda di completare il tuo cammino senza inciampare”.
Un gran numero di soldati si stavano radunando per ascoltare l’edificante conversazione, e un membro dello stato maggiore del comandante li osservò mentre ascoltavano il santo e criticavano il governo per aver esiliato Massimo; perciò ordinò che l’anziano fosse portato via immediatamente. Il nostro padre fu condotto un miglio più avanti sulla strada per Perveris, dove sarebbe stato esiliato. Lo accompagnarono il clero e i monaci, spinti dall’amore divino. Nel frattempo le guardie di Massimo si preparavano a riprendere il viaggio. Quando le guardie furono pronte a partire, il clero e i monaci abbracciarono il santo in lacrime, lo caricarono su un asino e lo salutarono, quindi tornarono a Selimbria. All’arrivo a Perveris, San Massimo fu imprigionato.

Passato molto tempo, l’imperatore richiamò a Costantinopoli il venerabile Massimo e i suoi due discepoli. Entrarono in città al tramonto e furono accolti da due ufficiali e dieci guardie che li prelevarono dalla nave seminudi e scalzi e li rinchiusero in celle separate. Diversi giorni dopo i prigionieri furono portati al palazzo. Entrambi i discepoli furono lasciati fuori sotto sorveglianza, e fu condotto dentro l’anziano. C’era il Senato in seduta e c’erano numerosi alti funzionari; l’Imperatore, tuttavia, non c’era. San Massimo fu presentato ai nobili seduti. Il primo a parlare fu il gazophylax, che con rabbia chiese: “Sei cristiano?”

“Lo sono, per la grazia del Dio di tutti”, rispose l’anziano.

“Tu menti!” – gridò il tesoriere.

Il santo rispose: “Puoi dire che non sono cristiano, ma Dio sa che lo sono e che lo rimarrò sempre”.

“Se sei cristiano, perché odi l’Imperatore?” continuò il tesoriere.

“Come puoi dire che odio l’Imperatore?” chiese Massimo. “L’odio è un sentimento nascosto dell’anima, come lo è l’amore.”

“È ovvio dalle tue azioni che sei un nemico dell’Imperatore e della Città Imperiale”, insistette il gazophylax. “Tu solo hai consegnato ai Saraceni l’Egitto, Alessandria, la Pentapoli, la Tripolitania e l’Africa.”

San Massimo chiese: “Che prova hai di questo?”

Allora, i nemici dell’anziano produssero un uomo di nome Giovanni, che era sakellarios o controllore di Pietro, ex duca di Numidia. Giovanni affermò: “Ventidue anni fa, il nonno del nostro signore l’imperatore ordinò al beato Pietro di condurre il suo esercito in Egitto contro i Saraceni. Avendo assoluta fiducia in te come servitore di Dio, ti scrisse chiedendo il tuo consiglio. Tu gli hai risposto che ” non piacque a Dio di aiutare Eraclio o i suoi eredi.”

Il santo ribatté: “Se dici il vero e hai la lettera di Pietro per me e la mia per lui, mostrale e lasciale leggere, affinché io sia punito secondo la legge”.

“Non ho le tue lettere e non le ho mai viste”, ammise Giovanni, “ma tutti nel campo ne parlavano”.

Se tutto l’esercito ne era a conoscenza, perché mi accusi solo tu? Mi hai mai visto prima, oppure io te?” chiese il santo.

“Mai”, ammiase Giovanni.

“Decidete voi stessi se è giusto accettare una simile testimonianza”, rimproverò Massimo ai senatori. “Ricordate le parole dette da Dio, il giusto giudice di tutti: Con quale giudizio giudicate, sarete giudicati; e con quale misura misurate, sarà misurato di nuovo a voi.”

Successivamente fu introdotto Sergio Magudas. Disse: “Dieci anni fa, il beato Padre Tommaso di Roma mi disse: ‘Papa Teodoro mi mandò da Gregorio il Patrizio, esarca di Cartagine e delle terre d’Occidente, che si era ribellato all’Impero romeo. Voleva che assicurassi Gregorio di non temere l’attacco da parte dei Romei, perché, disse, il servitore di Dio Padre Massimo aveva visto in sogno una moltitudine di angeli nel cielo, alcuni ad oriente, che esclamavano: Costantino Augusto, vincerai! e altri ad occidente, che gridavano: Gregorio Augusto, vincerai! e il suono di quelli d’occidente era più forte e più chiaro di quelli d’oriente.’ ”

A questo punto il tesoriere esultò: “E ora Dio ti ha portato in questa città per essere bruciato vivo!”

“Ringrazio Dio per aver purificato i miei peccati volontari con sofferenze involontarie”, ha detto Massimo; “Tuttavia, guai al mondo a causa delle calunnie: è infatti necessario che vengano le calunnie, ma guai a quell’uomo da cui viene l’offesa. È vergognoso diffamare qualcuno ingiustamente, come avete fatto voi, e non meno vergognoso lasciare impuniti coloro che dicono queste cose per compiacere i mortali. Avreste dovuto fare le vostre accuse mentre era ancora vivo Gregorio l’esarca. Allora si sarebbero potuti convocare il patrizio Pietro, duca di Numidia, il Padre Tommaso e il beato papa Teodoro. Avrei chiesto a Pietro davanti a tutti: ‘Dimmi, mio ​​signore, sei stato tu a scrivermi, come riferiscono i tuoi servi, oppure sono stato io a scriverti?’ Avrei chiesto al beato Papa: “Dimmi, Maestro, ti ho mai raccontato uno dei miei sogni?” Ma anche se il Papa avesse detto che gli avevo comunicato il sogno, la colpa sarebbe stata sua per aver incoraggiato direttamente la ribellione, non mia. Il sogno non è una questione di volontà, e certamente non è punibile dalla legge.”

Gli accusatori sollevarono altre accuse contro l’incolpevole uomo di Dio, soprattutto che a Roma lui e i suoi discepoli avevano censurato l’imperatore. San Massimo continuò umilmente a dimostrare la sua innocenza, confutando ogni calunnia con prove sagge e divinamente ispirate. Poi le guardie portarono dentro il suo discepolo Anastasio, e gli interrogatori cercarono di indurlo a coinvolgere il suo maestro in qualche crimine. Ben presto divenne chiaro che non avrebbe detto nulla contro il giusto, così lo presero a pugni e lo portarono via. Sia lui che il nostro padre furono riportati nelle loro celle.

La sera successiva vennero a parlare con il venerabile il patrizio Troilo e Sergio Eufraste, amministratore della tavola imperiale. Dopo avergli offerto qualcosa da mangiare, gli chiesero: “Abba, quali argomenti hai impiegato in Africa e a Roma per convincere Pirro a rinunciare ai suoi veri dogmi e ad accettare i tuoi?”

Il santo rispose: “Se avessi i libri in cui ho annotato i dettagli delle nostre conversazioni e dei nostri dibattiti, te lo direi. Mi sono stati portati via, quindi posso solo raccontare quello che ricordo”. Proseguì raccontando quanto poteva, concludendo con queste parole: “Non ho dogmi miei, ma solo quelli sostenuti da tutta la Chiesa cattolica. La mia confessione non contiene una sola parola che possa propriamente chiamarsi mia invenzione”.

“E tu rifiuti ancora di entrare in comunione con il Patriarcato di Costantinopoli?” hanno chiesto.

“Ancora,” rispose.

Hanno chiesto: “Perché?”

“Perché i capi di questa Chiesa hanno rifiutato le definizioni dei quattro santi concili e hanno accettato i Nove Capitoli pubblicati ad Alessandria; l’Ekthesis scritta da Sergio, Patriarca di Costantinopoli e il Typos recentemente pubblicato. Ciò che hanno proclamato come dogma nell’Ekthesis hanno rifiutato nel Typos. Si sono ripetutamente scomunicati dalla Chiesa e sono completamente instabili nella fede. Inoltre, sono stati tagliati fuori e privati ​​del sacerdozio dal concilio locale tenutosi a Roma. Quali misteri, quindi, possono celebrare? E quali spirito discende su coloro che essi ordinano?”

“Dunque tu solo sarai salvato e tutti gli altri periranno?” obiettarono gli uomini dell’Imperatore si opposero.

Il santo spiegò: “Quando il popolo di Babilonia adorava l’idolo d’oro, i Tre Santi Giovani non condannavano nessuno. La loro preoccupazione non era per le azioni degli altri, ma che loro stessi non si allontanassero dalla pietà. Quando Daniele fu gettato nella fossa dei leoni, non condannò coloro che, ubbidendo a Dario, non adoravano Dio, ma tenevano presente il proprio dovere, preferendo morire piuttosto che peccare contro coscienza e trasgredire la legge di Dio. Dio non voglia che io giudichi qualcuno o dica che Io solo mi salverò! Tuttavia preferirei morire piuttosto che violare la mia coscienza tradendo in ogni particolare la fede ortodossa.”

“E cosa farai quando i romani si uniranno ai bizantini? Ieri sono arrivati ​​due legati pontifici. Domani è il giorno del Signore e parteciperanno ai purissimi Misteri con il Patriarca”, lo schernivano.

Quell’uomo divino rispose: “Il mondo intero può entrare in comunione con il Patriarca, ma io no. L’apostolo Paolo ci dice che lo Spirito Santo lancia anatemi anche agli angeli che predicano un nuovo Vangelo, cioè introducono un nuovo insegnamento”.

I nobili chiedevano: “È proprio necessario confessare due volontà e due operazioni in Cristo?”

“Assolutamente”, insistette il santo, “se vogliamo attenerci fermamente alla dottrina ortodossa. Ogni natura ha la sua operazione corrispondente. I Santi Padri insegnano chiaramente che è attraverso l’operazione che si riconosce l’esistenza della natura. Altrimenti, come potremmo sapere che Cristo è vero Dio per natura e vero uomo?”

I nobili furono costretti ad ammettere: “Comprendiamo che questa è effettivamente la verità; tuttavia, non dobbiamo metterci in contrasto con l’Imperatore. Egli emise i Typos, non per negare alcuna proprietà inerente a Cristo, ma per portare la pace nella Chiesa. Per questo comanda che non si parli di cose che diano luogo a divergenze di opinione.”

Le lacrime salirono agli occhi di Massimo. Gettandosi a terra, gridò: “Non voglio addolorare l’imperatore, che è un uomo buono e ama Dio. Ma ancor più, temo di irritare il Signore tacendo ciò che ci comanda di confessare. Se, come dice il divino Apostolo, alcuni nella Chiesa Dio li ha posti in primo luogo apostoli, in secondo luogo profeti, in terzo luogo dottori, quindi è chiaro che per mezzo di loro parla il Signore. Tutta la Sacra Scrittura, gli scritti dei dottori della Chiesa e le decisioni dei concili proclamano che Cristo Gesù, nostro Signore incarnato e Dio, ha il potere di volere e di agire secondo la sua divinità e la sua umanità e non gli manca alcuna proprietà appartenente alla divinità o alla natura umana, eccetto il peccato. Se Egli è perfetto in entrambe le nature e in nulla carente in quelle, allora è evidente che il mistero dell’Incarnazione viene completamente distorto da chiunque non confessi che Egli possiede tutte le proprietà innate di ciascuna natura, dalle quali e nelle quali le Sue nature sono conosciute.”

Dopo che il santo ebbe esposto questo e molti altri punti, i nobili lodarono la sua saggezza e si resero conto che era impossibile confutarlo. Tuttavia, Sergio disse: “Padre, rimane il punto principale in questione: a causa tua molti hanno rotto la comunione con la Chiesa di Bisanzio”.

Massimo obiettò: “Chi può dire che io abbia ordinato a qualcuno di rompere la comunione con il Patriarcato di Costantinopoli?”

“Il fatto che tu non sia in comunione con noi allontana molti altri”, rispose Sergio.

“Non c’è niente di più gravoso che subire il rimprovero della coscienza”, sospirò l’uomo di Dio, “e niente di più desiderabile dell’approvazione della coscienza”.

“È un bene che il Typos del nostro devoto imperatore sia stato anatemizzato e disdegnato in tutto l’Occidente?” chiese Troilo.

Il santo rispose: “Che Dio perdoni coloro che hanno spinto il nostro signore l’imperatore a pubblicare il Typos”.

“Chi lo ha spinto?” chiese Sergio.

“I primati delle chiese lo hanno spinto, e i nobili hanno dato il loro consenso, scaricando la responsabilità della loro empietà sul nostro irreprensibile sovrano, estraneo a ogni eresia”, affermava il venerabile. “Consiglia a Sua Maestà di fare come suo nonno Eraclio di beata memoria. Apprendendo che molti padri rifiutavano di accettare l’Ekthesis e condannavano l’eresia in essa contenuta, si scrollò ogni responsabilità inviando lettere a tutte le chiese, spiegando che l’Ekthesis non era infatti opera sua, ma del patriarca Sergio. Costante dovrebbe emularlo e così scagionarsi.

Troilo e Sergio scossero la testa e rimasero a lungo in silenzio. Poi mormorarono: “È sconveniente, o meglio, impossibile seguire il tuo consiglio, Padre”. Continuarono a conversare con il nostro padre per parecchio tempo e si congedarono da lui in modo amichevole.

 

Una settimana dopo, di sabato, il santo ed entrambi i suoi discepoli furono portati a palazzo per ulteriori interrogatori. Anastasio, l’ex legato della Chiesa romana, fu lasciato fuori mentre l’altro Anastasio fu presentato al senato e a due patriarchi, Tommaso di Costantinopoli e un altro. Immediatamente, i nemici di Massimo iniziarono a vomitare calunnie, di cui chiesero conferma ad Anastasio. Questi respinse senza timore ogni accusa avanzata dai senatori. Poi gli chiesero se avesse anatemizzato il Typos, e lui rispose: “Non solo l’ho anatemizzato: ho anche scritto un libro contro di esso”.

“Riconosci di aver sbagliato?” hanno chiesto.

“Dio non voglia che io dica di aver fatto male quando ho fatto bene, rispettando i canoni della Chiesa”, rispose Anastasio.

Con l’aiuto del Signore Anastasio rispose saggiamente a tutte le loro domande, così lo mandarono via e condussero dentro il santo anziano Massimo. Troilo si rivolse al nostro padre così: “Dì la verità, Padre, e Dio sarà misericordioso con te. Ti interrogheremo secondo la legge. Se anche una sola delle accuse contro di te è valida, potresti essere giustiziato”.

L’anziano rispose: “Te l’ho già detto e te lo ripeto che le accuse sono false. È impossibile per te provare una delle tue accuse così come lo è per Satana diventare Dio. Satana è un apostata e non potrà mai diventare Dio, e le accuse sono completamente false e non potranno mai diventare vere. Tuttavia fai come desideri. Adoro Dio con tutta sincerità e non ti temo.”

“Hai anatemizzato il Typos?” chiese Troilo.

“Ho confermato più volte di averlo fatto”, rispose l’anziano.

“Se hai anatemizzato il Typos, ne consegue che hai anatemizzato l’imperatore”, affermò Troilo.

“Non ho anatemizzato l’imperatore, ma solo un pezzo di pergamena che rovescia l’insegnamento ortodosso della Chiesa”, spiegò il pio.

“Dove l’hai anatemizzato?” chiese Troilo.

San Massimo rispose: “Al concilio locale di Roma che ebbe luogo nella Chiesa del Salvatore e della Theotokos”.

Allora il Prefetto chiese: “Entrerai in comunione con la nostra Chiesa, oppure no?”

“Non lo farò”, disse il santo.

“Perché?” chiese l’Eparca.

“Perché ha respinto le decisioni dei concili ortodossi”, rispose Massimo.

L’Eparca continuò: “Se è così, come mai i padri di quei concili rimangono nei dittici della nostra Chiesa?”

“Che profitto si può trarne a commemorarli, quando si rinuncia alle loro dottrine?” ribatté il santo.

Il Prefetto chiese: “Puoi provare che la nostra Chiesa rifiuta i dogmi dei santi sinodi?”

“Se lo desideri e rimani calmo,” disse l’anziano, “posso farlo facilmente.”

Ci fu una pausa di silenzio; poi il tesoriere imperiale chiese al nostro padre: “Perché ami così tanto i romani, ma odi i greci?”

“Dio ci comanda di non odiare nessuno”, disse il santo. “Amo i romani perché hanno la mia stessa fede, e amo i greci perché parliamo la stessa lingua”.

“Quanti anni hai?” chiese il tesoriere.

“Settantacinque,” rispose Massimo.

Il tesoriere chiese: “Da quanti anni il tuo discepolo è con te?”

L’anziano disse: “Trentasette”.

All’improvviso uno dei sacerdoti presenti gridò: “Che Dio ti punisca per quello che hai fatto al beato Pirro!” Massimo non rispose.

L’interrogatorio si concluse con il riferimento al sinodo svoltosi a Roma. Uno degli avversari del santo, Demostene, affermò: “Quello non fu un vero concilio, perché Martino, che lo convocò, fu deposto”.

“Papa Martino non è stato deposto, ma perseguitato”, disse l’uomo di Dio.

In nessun momento durante l’esame nessuno dei patriarchi ha detto una parola. Terminato l’interrogatorio, i senatori mandarono fuori Massimo e deliberarono cosa gli avrebbero fatto. I disumani persecutori decisero che sarebbe stato troppo gentile semplicemente imprigionare o esiliare nuovamente il santo e pensarono che fosse meglio sottoporlo a tormenti peggiori della morte. Consegnarono il nostro padre e il suo discepolo all’Eparca della città; dopo di che il prefetto li condusse al pretorio. Qui l’iniquo torturatore fece spogliare nudo il santo anziano e lo flagellò. Non fu svergognato dall’età avanzata di Massimo, dall’aspetto santo o dal corpo emaciato, consumato dalle fatiche ascetiche. I suoi servi coprirono l’anziano di ferite e il pavimento di sangue; allora la bestia feroce rivolse la sua attenzione ai discepoli di Massimo e ordinò loro di subire lo stesso trattamento. Nel frattempo, un araldo proclamava: “Chi rifiuta di sottomettersi ai decreti dell’Imperatore si espone a punizioni simili!” Successivamente i prigionieri esanimi venivano trascinati nelle loro celle.

All’alba il venerabile, con il suo discepolo più anziano, fu nuovamente condotto davanti al tribunale del Prefetto. La vista del santo anziano, asceta, eloquente teologo e confessore della fede, ansimante e coperto di ferite sembrava sufficiente per inclinare alla misericordia il cuore più duro, ma l’Eparca e i suoi servi stavano già escogitando nuovi castighi. Strapparono alla radice la lingua di Massimo, sperando di arrestare il flusso degli insegnamenti divini che soffocavano l’errore eretico e di ridurre al silenzio l’anziano, poi fecero lo stesso con il suo discepolo. Dopodiché rimandarono entrambi gli uomini nella prigione. Ma la loro crudeltà fu vana, poiché Cristo Signore, che nei tempi antichi trasse la lode dalla bocca dei bambini e dei lattanti e concesse la parola al muto, diede ai suoi servi fedeli e fedeli, al venerabile Massimo confessore e martire, e al suo discepolo la pio Anastasio, la capacità miracolosa di conversare più chiaramente di prima. Scoprendo ciò, i miserabili eretici si infuriarono e piantarono un coltello nel polso di nostro padre, recidendogli la mano destra, che gettarono a terra. Allo stesso modo tagliarono la mano al suo discepolo, sant’Anastasio. L’altro discepolo, Anastasio legato della Chiesa romana, scampò alle punizioni del secondo giorno perché in precedenza aveva servito come notaio imperiale.

Dopo che questa macabra faccenda fu terminata, i servi dell’Eparca trascinarono San Massimo e il suo discepolo fuori dal pretorio e attraverso i mercati, insultandoli e mostrando la lingua e le mani alla folla. Quando si furono stancati di ridicolizzare e tormentare i sofferenti e di gridare a gran voce, gli uomini del Prefetto mandarono i tre prigionieri in luoghi di esilio separati, scalzi e quasi nudi, senza cibo né nessuno che si prendesse cura di loro. Sulla strada San Massimo e gli altri sopportarono molte difficoltà e ulteriori maltrattamenti. Il venerabile era in condizioni così pietose da non poter né cavalcare un asino né sopportare gli scossoni di un carro; perciò i soldati lo portarono in una cesta. Anche così, l’anziano soffrì per tutto il viaggio. Fu portato in una regione chiamata Alania nella parte europea della Scizia e imprigionato nella città di Skemarum. L’anima santa del suo sofferente discepolo Anastasio lasciò il suo corpo martoriato mentre era ancora in viaggio e ascese a Dio e al regno della vita eterna.

Il venerabile Massimo visse per tre anni nel suo ultimo luogo di esilio, sopportando gravi sofferenze. Fu confinato in una prigione dove fu maltrattato brutalmente e privato delle cure necessarie in vecchiaia. Prima di liberarlo dalle sue sofferenze e di condurlo fuori dal carcere verso il regno celeste ed eterno della libertà e della gioia, il Signore lo consolò con una visita divina e gli annunciò il giorno e l’ora della sua dipartita. Il beato portatore di passione ne fu rallegrato e, sebbene sempre pronto a raggiungere la sua fine, iniziò a fare speciali preparativi per essa. Quando arrivò il momento tanto atteso, consegnò volentieri la sua anima nelle mani di Cristo Dio, che amava fin dalla sua giovinezza e per il quale aveva tanto sofferto.

Così il confessore e martire di Cristo lasciò questa vita ed entrò nella gioia del Signore. Dopo la sua sepoltura a Skemarum, tre candele apparvero sulla sua tomba e bruciarono miracolosamente, illuminando tutta la zona. Significavano che il santo, che fu luce per il mondo durante la sua vita, continuò a risplendere su tutti nel suo riposo. In effetti, fino ad oggi rimane un faro per noi e fornisce un esempio di virtù, longanimità e zelo ardente per il Signore. Il fatto che siano state viste tre candele indica che il favorito della Santissima Trinità aveva preso dimora nelle luminose dimore del Regno di Dio, dove i giusti ardono come il sole ed esultano nella visione della luce trinitaria.

Anastasio l’apocrisiarios sopravvisse al venerabile Massimo e scrisse una lunghissima Vita descrivendo le fatiche e le sofferenze del suo padre e maestro. Abbiamo abbreviato il suo racconto, conservando ciò che basta alla nostra edificazione, a gloria del nostro Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo, mirabile nei santi. A Lui la lode, l’onore e l’adorazione da parte di noi peccatori, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amin.

 

 

  • 01: Memoria di Sant’Agnese vergine e martire a Roma sotto Diocleziano verso il 304

Agnese nacque a Roma da genitori cristiani, appartenenti ad illustre famiglia patrizia, nel III secolo. Decise di consacare al Signore la sua verginità. Quando era ancora dodicenne, scoppio una persecuzione e molti furono i fedeli che s’abbandonavano in massa alla defezione. Agnese rimase fedele al Cristo e gli sacrificò la sua giovane vita. Fu denunciata come cristiana dal figlio del prefetto di Roma, invaghitosi di lei e da lei respinto per mantenre fede al suo voto di verginità. Fu esposta nuda al Circo Agonale, un luogo di piazza Navona (oggi cripta di Sant’Agnese) delegato alle pubbliche prostitute. Un uomo che cercò di avvicinarla cadde morto prima di poterla sfiorare e altrettanto miracolosamente risorse per intercessione della santa. Gettata nel fuoco, questo si estinse per le sue orazioni, fu allora trafitta con colpo di spada alla gola, nel modo con cui si uccidevano gli agnelli. Per questo nell’iconografia è raffigurata spesso con una pecorella o un agnello, simboli del candore e del sacrificio. S. Ambrogio e S. Damaso hanno esaltato il suo esempio e il suo nome è scritto nel canone della messa. Nel Martiriologo romano è riportato lo scritto del beato Girolamo, che di lei dice: “Con gli scritti e con le lingue di tutte le genti, specialmente nelle chiese, fu lodata la vita di Agnese; la quale vinse e l’età e il tiranno, e col martirio consacrò la gloria della castità”. La principessa Costantina, figlia di Costantino il Grande, fece erigere in suo nome una chiesa sulla via Nomentana dove ogni anno, il 21 gennaio, due agnelli allevati da religiose vengono benedetti e offerti al papa perchè dalla loro lana siano tessute le bianche stole dei patriarchi e dei metropoliti del mondo cattolico. E’ patrona delle giovani, dei Trinitari, dei giardinieri, degli ortolani e protettrice della castità. La data della morte non è certa, qualcuno la colloca tra il 249 e il 251 durante la persecuzione voluta dall’imperatore Decio e ordinata dal prefetto di Roma Sinfronio, altri nel 304 durante la persecuzione ordinata da Diocleziano.
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  • 01: Sant’Agnese: venerazione e culto liturgico

Archimandrita Evangelos Yfantidis

 

Sant’Agnese molto presto venne additata come esempio e protettrice in particolare dei giovani che intendevano consacrarsi al Signore.

Per questo motivo[1] il suo culto varcò nella seconda metà del sec. IV i confini dell’ Urbe e si è rapidamente stabilito e diffuso, tanto in Oriente quanto in Occidente: S. Ambrogio la fa conoscere a Milano, S. Martino di Tours nelle Gallie, dicendo d’ averla vista in una visione con Tecla e Maria, Prudenzio ne diffonde la conoscenza in Spagna, S. Agostino l’addita ai suoi fedeli d’ Ippona come modello di fortezza e di purezza S. Massimo la fece conoscere nella regione di Torino, i Menei e i Menologi imperiali nella Grecia; in Germania vi furono in seguito poeti che ne cantarono le gesta e S. Girolamo da Betlemme la ricorda alla vergine Demetriade a cui scriveva nel 414[2].

A Porto (Fiumicino) all’ inizio del sec. V ci fu una basilica in onore di S. Agnese, di cui la data della dedicazione è recensita nel Martirologio geronimiano al 18 ottobre. Nell’ oppidum di Anseduna, sito sulla via di Béziers a Narbonne in Francia, il sacerdote Othia eresse nel 455 una basilica in onore dei santi martiri Vincenzo, Agnese ed Eulalia. A Ravenna, verso la metà del sec. V, il suddiacono Gemello fece costruire una chiesa in onore di S. Agnese; di questa chiesa rimangono ancora alcuni ruderi e un frammento di ambone colla figura della santa. Nella chiesa di S. Stefano a Ravenna il vescovo Massimiano (VI sec.) adoperò per la consacrazione una grande quandità di relique, tra cui ci furono di S. Agnese. Nella cappella cilindrica di Grado (reliquiario del sec. VI), si conserva tuttora una laminetta col nome di S. Agnese, posta accanto alle reliquie della Santa; si tratta naturalmente di reliquie “rappresentative” non “ex corpore”[3]. A Classe ci fu pure un monastero dedicato a S. Agnese. In un antico monastero fondatovi da Clodoveo, primo re dei Franchi, che ci fu vicino alla città Vodeville in Francia, si onoravano tra le altre reliquie anche di Sant’ Agnese, ripostevi dallo stesso Clodoveo che dal romano pontefice le aveva ottenute. Quelle reliquie il 964 furono translocate in Olanda nella cattedrale di Utrecht; quando la città è venuta in mano dei calvinisti le reliquie di S. Agnese furono bruciate, o disperse, ma vi rimase la memoria in una costumanza popolare. A Costantinopoli ci fu la sua chiesa, dove ci furono delle reliquie della Santa[4]

Agli inizi del sec. V Sant’Agnese godeva d’una grande notorietà nella Chiesa e due secoli dopo la sua festa era ovunque celebrata. Il suo nome dalla “Depositio martyrum” passò nel “Martirologio geronimiano” che ebbe dal sec. V in poi una larghissima diffusione. Sempre nel sec. V – VI, il suo nome è inserito, onore riservato a pochissimi santi, nella lista dei Martiri del “Nobis quoque” nel Canone della Messa ambrosiana (la prima tra le donne ivi ricordate), romana (al quinto posto) e franco-celtica (al secondo posto)[5].

Il calendario della Chiesa di Cartagine, la cui redazione risale al principio del sec. VI, reca al 21 gennaio l’annuncio della festa “sanctae martyris Agnes” e parimenti il calendario marmoreo di Napoli del sec. IX. Identico annuncio, seguito dai formulari liturgici, si trova nei sacramentari, lezionari, evangeliari, antifonari della Messa e dell’ Ufficio, romani e non romani, cioè ambrosiani, gallicani e mazarabici dagli inizi del sec. VII in poi. La Chiesa di Costantinopoli, come risulta dai sinassari, onorava la Santa il 5 luglio[6], ma il nome di Agnese ricorre pure al 20, 21 gennaio e 1 febbraio; oggi nel Patriarchato Ecumenico a in tutte le Chiese ortodosse si festeggia il 21 gennaio[7].

Nel sec. VII in Roma troviamo, al 28 gennaio, una seconda solennità per la Santa. Il sacramentario gregoriano e i libri liturgic che lo seguono, ivi compresi il breviario, il messale e il martirologio romani odierni, la chiamano: “Natalis S. Agnae” o “Agnetis secundo” e le orazioni della Messa non hanno caratteristiche specifiche, ragione per cui alcuni sacramentari dei sec. IX-X e i rubricisti dopo Guglielmo Durand, vescovo di Mende (+ 1 nov. 1296), la considerarono come l’ottava della festa del 21. Invece il sacramentario gelasiano antico, gli evangeliari della stessa epoca (metà sec. VII), alcuni codici del “Martirologio geronimiano” e i sacramentari gelasiani del sec. VIII danno alla festa del 28 un carattere specifico e la denominano: “Natale S. Agnetis de nativitate”, “Agnae in genuinum”, ponendola in contrapposizione col “Natale de passione” del 21. E difatti le orazioni e il prefazio celebrano la nascita temporale della Santa, fatto singolare, ma non unico, poiché nei sacramentari gelasiani, anche la colletta di Santa Sotere (10 febbraio) ricorda lo stesso evento, che è poi stato riservato a Maria SS.ma (8 settembre) e a San Giovanni Battista (24 giugno)[8].

Dal sec. VII in poi, si annoverano un po’ ovunque chiese, cappelle e monasteri dedicati alla Santa: ad esempio a Parigi la chiesa ordierna di S. Eustachio era dedicata a S. Agnese; a Utrecht, nella cattedrale, si veneravano sue reliquie fin dal sec. X; presso Zwolle sorgeva il “Mons S. Agnetis”, il St. Agnietenberg, col celebre monastero dei Canonici di S. Agostino di Windesheim, dove visse e mori Tommaso da Kempis [9].

[1] La devozione ad Agnese è legata allo sviluppo, verificatosi alla fine del secolo IV, dell’ ascetismo femminile. G.N., “Agnese”, Storia dei Santi e della Santità cristiana, vol. II, p. 62.

[2] FRUTAZ, Il complesso monumentale di sant’ Agnese, pp.18-19; G.N., “Agnese”, Storia dei Santi e della Santità cristiana, vol. II, p. 62, 64-68; PALUZZI GALASSI Carlo, Sant’ Agnese in Agone, Roma (senza anno), p.8; PETTINATI Guido, I Santi canonizzati del giorno, vol. I, pp. 246-247.

[3] Oggetti che ebbero relazioni col martire o erano stati a contatto col suo sepolcro, come stoffe, terra, pietre, olio delle lampade che ardevanno innanzi al medesimo, ecc, allo stesso modo e colla stessa fede erano stimati reliquie che le fonti chiamano”brandea”, “pignora”, “patrocinia”, “memoria”, “merita”, ecc. FRUTAZ, Il complesso…, p. 20.

[4] APRILE Renato, «Agnese di Roma – Iconografia e monumenti», in Bibliotheca Sanctorum, p. 408; FRUTAZ, Il complesso monumentale di sant’ Agnese, pp. 19-20 ; MONACI Filippo, Un modello alle fanciulle cristiane ossia memorie del martirio e del culto di S. Agnese V.M., Bologna (senza anno), pp. 58-59, 67-69; JOSI Enrico, «Agnese di Roma», in Bibliotheca Sanctorum, pp. 388-391; PALUZZI GALASSI Carlo, Sant’ Agnese in Agone, Roma (senza anno), p.12.

[5] FRUTAZ, Il complesso monumentale di sant’ Agnese, p. 20 ; G.N., “Agnese”, Storia dei Santi e della Santità cristiana, vol. II, p. 63; PALUZZI GALASSI Carlo, Sant’ Agnese in Agone, Roma (senza anno), p.8 PALUZZI GALASSI Carlo, Sant’ Agnese in Agone, Roma (senza anno), p.11.

[6] Si può supporre che fosse stata quella della dedicazione della sua chiesa o della traslazione delle reliquie in questa città.

[7] FRUTAZ, Il complesso monumentale di sant’ Agnese, pp.20-21; G.N., “Agnese”, Storia dei Santi e della Santità cristiana, vol. II, p. 63; PALUZZI GALASSI Carlo, Sant’ Agnese in Agone, Roma (senza anno), pp. 11-12.

[8] FRUTAZ, Il complesso monumentale di sant’ Agnese, p. 21 ; PALUZZI GALASSI Carlo, Sant’ Agnese in Agone, Roma (senza anno), pp. 10-12.

[9] FRUTAZ, Il complesso monumentale di sant’ Agnese, pp.21-22.

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